giovedì 9 agosto 2012

Nascita del Neo-tradizionalismo: contenuto della conferenza svoltesi a Genova.


I

Introduzione.

Il fenomeno letterario Italiano denominato Neo-tradizionalismo è una prospettiva che, in precedenza, è stata soltanto nominata nella breve introduzione al carme “Riflessi antichi”, del giovane poeta Forlivese Luca Cenacchi. Questi, tuttavia, ha avuto una trattazione indiretta attraverso i rispettivi scritti riguardanti l'esordiente produzione letteraria del giovane poeta Genovese Vittorio Cerruti, mediante il “tradizionalismo” di Mario Famularo, e tramite un commento a ciò che potrebbe essere riconosciuto come il tentativo originario dell'acuta ricostituzione della tradizione “pura” della letteratura Italiana presente nell'opera “Turris Eburnea”, del medesimo Cenacchi.
Nonostante le pregresse trattazioni, risulta necessario correggere la concezione del “puro”, accennato alla presentazione delle opere Cerrutiane. Nello specifico, tale concetto era stato introdotto attraverso l'individuazione di una tradizione “genuina” nel rispetto di una produzione letteraria reperibile dopo la grande comparsa di autori come Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale. Il dettaglio da specificare è che tale “purezza” non è totale, perché integrata da componenti riconducibili ad altre tradizioni letterarie di grande rilievo. E' proprio in una differenza di gradi di influenza esteriore che si definisce la cagione principale della dicotomia tra un tipo di tradizione e l'altro: la letteratura Post Dannunziana, nello specifico quella prodotta dagli ispiratori diretti dell'ermetismo in poi, è molto più contenuta da elementi ricavati dalle differenti esperienze letterarie straniere. A questo punto, il carattere “prevalentemente puro” della letteratura Italiana, funge da principale fonte di ispirazione per i cd. “Neo-tradizionalisti” che, rispetto ad un generale andamento della tradizione poetica degli ultimi cinquant'anni, risulta, come si è già detto in qualche pregresso articolo, un elemento di rilevante rottura e radice delle nuove forme di pluralità del sistema letterario in sé. 
Risulta peraltro necessario indicare come la presenza di questo stile nell'attività creativa di alcuni poeti Italiani trasgredisce concezioni ormai diffuse nella mentalità di determinati gruppi conformati da poeti. Ecco come introducendo tale problematica introduco anche il lato contrapposto del suddetto gruppo neo-tradizionalista: un gruppo formato da poeti fortemente influenzati dalle poetiche tipiche dell'attività letteraria del secondo novecento, e che porta avanti una chiara estremizzazione dei casi paradigmatici di tale fase letteraria. D'altronde, la presenza di tale gruppo di poeti, chiamato “Generazione entrante” (Fantuzzi), compie un importante ruolo sia nella definizione delle diverse correnti letterarie contemporanee, che nella diversità esistente tra quelle individuate nel presente articolo.
Prima di trattare direttamente la produzione poetica del movimento qui presentato, risulta necessario argomentare completamente i precetti fondamentali che lo caratterizzano, frammentando il trattato su ciò che in questa sede viene ritenuto essenziale: il concetto di tradizione, il classicismo e la sua funzione odierna, il ruolo delle poetiche tardo novecentesche nella nascita di questo movimento e le caratteristiche specifiche che caratterizzano la produzione poetica della corrente in parola. 

II

Definizione di Neo-tradizionalismo e contrasti con le correnti precedenti.

Water Binni, nel suo saggio “La poetica neoclassica in Italia” comincia il suo piccolo trattato evidenziando come la poesia neoclassica «acquista la sua forza maggiore quando si alimenta di sensibilità schiettamente nuova, pur facendosi, a un certo punto, sulla rottura di linee ben definite, momento distinto e contrastante con alcune precise tendenze romantiche». Il caso particolare del neo-tradizionalismo trasforma la formula appena presentata nei seguenti disposti: Il neo-tradizionalismo acquista la sua genesi nelle circostanze che si prospettano in ragione di una rottura su linee non tanto definite nel complesso, ma colpendo in pieno la tradizionale poetica che la letteratura Italiana ha formulato negli ultimi cinquant'anni. Tale rottura, composta in maniera essenziale da processi creativi legati alla nozione di “classico”, “classicismo” e, in casi particolari, a quella di “romanticismo”, eppure a quella di “decadentismo”, si contrappone a ciò che nella introduzione abbiamo presentato in base a poetiche e concezioni proprie della cosiddetta “generazione entrante”. Quest'ultima, presentatesi come un concetto essenziale alla comprensione della genesi del neo-tradizionalismo, trova, come abbiamo già chiarito, le sue fondamenta in ciò che Giuliano Ladolfi presenta, nello scritto introduttivo dell'antologia “Opera comune, Antologia di poeti nati negli Anni settanta” (Borgomanero, Atelier 1999), come contenuto principale di ciò che “gli autori degli anni sessanta e settanta e, per alcuni aspetti quelli degli anni ottanta, hanno trovato nella polemica avanguardistica e anarchica contro il passato la loro ragion d'essere”. Tale polemica, in un certo proposito, non aveva altro obiettivo di continuare col compito imperante nei circoli letterari novecenteschi: permettere ed esplicare una riforma della poesia e della letteratura Italiana. E' così come la poesia “entrante” porta a dedurre dati e circostanze specifiche da precisare con dettaglio. In primo luogo, è opportuno dividere il novecento in due parti: una metà sarebbe confortata “dai poeti affermatisi negli anni trenta, quaranta e cinquanta, conducendo a maturazione i processi d'inizio secolo”; l'altra metà sarebbe quella presentata in ordine all'affermarsi di poeti nelle decadi restanti. In questo punto, tuttavia, le poetiche esercitate sono diverse. Ognuna delle metà ha, in un certo senso, una propria poetica e una determinata visione sulla letteratura e tutto ciò che ne deriva. Le funzioni e le caratteristiche liriche della poesia rientrano in un arco temporale che si termina con l'oltrepassare la metà del XX secolo, introducendo, così, un notevole avvicinamento a ciò che si contrappone estremamente alle concezione del “puro” nella letteratura Italiana. E' qui che, a mio avviso, tale tradizione viene emancipata sulla base di due modelli concreti e certamente riconoscibili mercé del loro progressivo ravvicinamento alle strutture prosastiche che tanto caratterizzeranno la poesia italiana dei posteri. Tali modelli si reperiscono nell'entrata diretta di alcune concezioni chiavi che la letteratura straniera insegna al poeta e romanziere Torinese Cesare Pavese nella formulazione della sua ormai nota opera “Lavorare stanca”:

«Un po' diverso naturalmente sarà il discorso a proposito di un racconto-poema, dove il passaggio fantastico e concettuale insieme è dato proprio dall'elemento narrativo, dalla consapevolezza cioè di un'unità ideale insieme e materiale che raccoglie i diversi momenti di un'esperienza. Ma allora bisogna rinunciare alla pretesa di costruire un poema semplicemente giustapponendo delle unità: si abbia il coraggio e la forza di concepire l'opera di maggior mole con un solo respiro. Come due poemi non formano un unico racconto (si fermano tutt'al più a legami di parentela tra i rispettivi personaggi o consimili ripieghi), così due o più poesie non formano un racconto o costruzione, se non a patto di riuscire ciascuna per sé non finita. Dovrebbe bastare alla nostra ambizione, e basta in questa raccolta alla mia, che nel suo giro breve ciascuna poesia riesca una costruzione a sé stante»

La realizzazione di tale autonomia, presentata come “una costruzione a sé stante”, coniuga concezioni poetiche legate alla esperienza personale, in modo tale da generare un “poema-narrazione”:

Mangio un poco di cena seduto alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si guarda il cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo - chi sa quante donne
stan mangiando a quest'ora - il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.
Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliege, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che fra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi e si sente staccato da tutto.
Basta un po' di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com'è fermo il mio corpo.
Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l'accettano senza scomporsi: un brusío di silenzio.
Ogni cosa, nel buio, la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d'acque tra l'erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.
Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi susurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.

Mentre che si deve affermare, da un'altra angolazione, come la presenza di poeti come Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni e Eugenio Montale abbiano affermato il distaccarsi delle prossime generazioni da un atteggiamento strettamente avanguardista nei confronti di processi creativi legati alla poesia. Montale, in questo caso, è un chiarissimo esempio dell'evoluzione della poesia Italiana di allora: una poesia che subisce trasformazioni che evidenziano un passaggio dall'ermetismo verso quella poetica di gran lunga più vicina a sembianze di carattere prosastico. Ecco qui un componimento contenuto in “Ossi di seppia”, la sua prima raccolta:

Debole sistro al vento
d'una persa cicala,
toccato appena e spento
nel torpore ch'esala.
Dirama dal profondo
in noi la vena
segreta: il nostro mondo
si regge appena.
Se tu l'accenni, all'aria
bigia treman corrotte
le vestigia
che il vuoto non ringhiotte.
il gesto indi s'annulla,
tace ogni voce,
discende alla sua foce
la vita brulla.
Ed ecco qui un esempio della già menzionata evoluzione poetica sperimentata col passare del tempo in un componimento di nome “Aspasia”, della raccolta “Quaderno di quattro anni”, che porta molte somiglianze con il componimento di Pavese sopra esposto:

A tarda notte gli uomini
entrano nella sua stanza 
della finestra. Si era a pianterreno.
L'avevo chiamata Aspasia e n'era contenta.
Poi ci lasciò. Fu barista, parrucchiera e altro. 
Raramente accadeva di incontrarla.
Chiamavo allora Aspasia! A gran voce 
e lei senza fermarsi sorrideva.
Eravamo coetanei, sarà morta da un pezzo.
Quando entrerò nell'infinito, quasi per abitudine
griderò Aspasia alla prima ombra che sorrida.
Lei tirerà di lungo naturalmente. Mai 
sapremo chi fu e chi non fu
quella farfalla che aveva appena un nome
scelto da me. 

E anche se Pavese predicava la necessità di non ridurre completamente il componimento aL racconto naturalistico, le generazioni successive non fecero altro che fare il contrario dal consiglio dato dai maestri. Così è il caso della poesia di Giovanni Giudici, della cosiddetta “etica del quotidiano”: della poesia di Giovanni Raboni, Giancarlo Majorino, Giampiero Neri, Tiziano Rossi e di altri poeti di fama successiva com'è il caso di Maurizio Cucchi e Valerio Magrelli. Qui si compie, evidentemente, quella che caproni chiamava “il risparmio del rumore delle parole”, e cioè l'utilizzo di una chiarezza dedotta dalla presenza di una determinata “semplicità” (che non si conforma come sinonimo di “comune”) e che, nelle parole di Matteo Fantuzzi, funziona come “poesia sociale” (e non civile), proprio per tenere la letteratura in mezzo alle persone. Per questa ragione presento un evidente nesso logico tra l'elenco di autori sopra introdotti, e nomi come quelli di Matteo Fantuzzi (in veste di poeta, in questo caso in particolare), Matteo Zattoni, Francesco Terzago, Giulia Rusconi e Anna Ruotolo, componenti della già presentata “Generazione entrante”.

Tutta questa presentazione serve esclusivamente a indicare quale sia la rottura specifica che il neo-tradizionalismo porta nel nuovo contesto letterario Italiano. Nell'introduzione a questa trattazione ho già evidenziato la differenza essenziale che intercorre tra influenze “pure”, e influenze “spurie”. Questo determina una differenza di stile che si costituisce come un'abissale diversità poiché i neo-tradizionalisti recuperano elementi che, nei periodi sopra indicati, sono entrati totalmente in disuso dato l'accademismo che tali strumenti hanno acquisito grazie alle nuove concezioni che la poesia ha reperito in modelli diversi da quelli ritrovabili nella tradizione letteraria nostrana. 

III

Segue: Composizione essenziale del Neo-tradizionalismo


La composizione principale della corrente qui esposta ha la sua diretta rappresentanza nelle creazioni di Luca Cenacchi, Vittorio Cerruti e Mario Famularo. Le caratteristiche della poetica riguardante l'attività creativa di Vittorio Cerruti e Mario Famularo non saranno qui esposte e si raccomanda di leggere gli articoli di mercoledì 27 luglio 2011 e di giovedì 8 settembre 2011.


Il Neo Classicismo di Luca Cenacchi.

Per individuare correttamente la natura della corrente qui esposta è necessario chiarire la nozione di “classico” individuata nella elaborazione presentata nell'opera “il futuro del classico”, di Salvatore Settis. Curiosamente il concetto di classico in Settis – che viene presentato facendo una dovuta distinzione tra il classico in senso lato e quello in senso più ristretto, ove quello in senso lato rappresenta quello collegato alla civiltà greca, etrusca e romana in un arco di tempo che va dal 1200 A.C al 476 D.C, e quello in senso più ristretto rappresentato dalla sola cultura Greca in un determinato arco di tempo che va dal 490 al 320 A.C, tempo in cui si raggiunse l'apice della “classicità” - coincide con la definizione lessicale che l'accademia mette a disposizione di chiunque, per cui classico è “Dell'antica civiltà greca e romana” , oppure “che si ispira agli ideali estetici della civiltà greco-romana”, dando così l'impressione che non esista discussione alcuna rispetto alla natura del concetto in questione. Tuttavia il movimento in parola non si collega direttamente alla nozione “pura” di classico, ma si costituisce come “elemento o segmento staccato di origine classica o neoclassica”. E per questo risulta evidente l'applicazione delle svariate nature del “classico” come entità sia statica, quanto dinamica al contempo: statica perché è una espressione che ebbe una genesis e una kinesis in un tempo definito e già concluso, mentre la sua natura dinamica è rappresentabile nelle parole di novalis rispetto al suo uso e alla sua interpretazione:

L'antichità non ci è data in consegna di per sé – non è lì a portata di mano; al contrario, tocca proprio a noi saperla evocare.”

Ecco come si caratterizza un “ritorno ciclico” dei principi che il concetto di “classico” porta alle sue spalle. In un passaggio precedente “classico” e “classicismo” (concetto che già si lega al movimento del neo tradizionalismo ma non si identifica con esso in maniera diretta) formano una coppia di concetti che si spiegano e si legittimano mutuamente in quanto il “classicismo” trova diretta fonte di creazione della propria natura nel “classico”. In questo caso in particolare, e conoscendo personalmente gli autori appartenenti al “neo tradizionalismo”, il “classico” non è che una nozione collegata ai principi morali che siffatti esponenti applicherebbero alla civiltà nel suo complesso.

A questo punto, la poetica di Luca Cenacchi ha il ravvicinamento più acuto ai sensi di ciò che è stato detto in precedenza: questo concernente una concezione del classico per cui se vogliamo intendere il suo significato è opportuno rifiutare simultaneamente “sia l'idea che la tradizione culturale dell'Occidente sia in sé chiusa e conclusa, grazie a peculiarità uniche e irripetibili; sia l'idea, opposta, che la tradizione culturale occidentale non esiste come tale, in quanto non ha alcuna peculiarità distintiva sua propria.

Il continuo “alternarsi di morti e di rinascite” prende forma, in questo tempo, nell'operare creativo del poeta Forlivese:

«Il ricorso intermittente e periodico a forme del “classico” sia per intendere il passato sia in funzione del presente, che abbiamo visto inscenarsi in cento varianti a partire da quando la stessa cultura greca sancì se stessa promuovendo il culto per il passato, è anzi un carattere storico così peculiare che Ernest Howald (Die kultur der Antike, 1948) ha potuto indicare la rinascita del “classico” come la forma ritmica della storia culturale europea. La diagnosi di Howald, che vede come tipico della nostra memoria culturale non solo e non tanto il “classico” quanto il suo implacabile ritorno ciclico, apre una pista interpretativa importante, ma impone subito una domanda: e cioè se davvero questa “forma ritmica” sia peculiare della tradizione occidentale e perché.»

Questo e altro aprono una soluzione alla principale critica rivolta alla poesia Cenacchiana: perché scrivere in uno stile ormai caduco e non adeguarsi alle modalità generate dall'evoluzione della poesia? Questo, per certo, corrisponde anche ad esigenze personali: nessuno dovrebbe scegliere una determinata poetica, oppure specifici dati estetici in ragione della necessità di seguire la parola vincente, o l'egemonia del momento. Ogni lavoro estetico dovrebbe essere, in questo caso, dettato da necessità di tipo razionale e non conformistico. E in questo caso il Cenacchi trova la prorpia ragion d'essere in ciò che Chateaubriand chiama “ una segreta attrazione per le rovine”, a causa di un sentimento del sublime destato dal contrasto fra “la nostra condizione umana e la caduta del grandi imperi, che le rovine testimoniano ed evidenziano”. Eppure le rovine, in questo caso, segnano il punto di partenza di quella rinascita “necessaria” che tanto ordine mette al caos determinato dalla modernità. Qui Cenacchi dimostra quanto sia logica l'esistenza della sua poetica, in quanto le rovine che tanto caratterizzano il paesaggio occidentale erano, finora, calpestate dalla modernità intensificata dalle ansie di globalità. E ' così come il suo “neo-classicismo”, recentemente influenzato da piccoli elementi romantici, rappresenta un evidente ridestarsi a nuova vita della cultura occidentale. 

Tuttavia, come abbiamo già accennato in precedenza, il concetto di “classico” è applicabile sono in maniera indiretta. Cenacchi non crea uno stile classico, ma, come i greci, si ispira alla cultura classica in ragione della sua personale ammirazione per il classicismo. Da qui in poi risulta opportuno studiare il progresso subito dalla poetica di questo poeta fin dalla creazione dell'opera “Turris Eburnea”, anche quella rintracciabile in un commento datato 6 febbraio 2011, su “L'osservatore..”. Da quel tempo in poi, la poetica Cenacchiana si è alleggerita di classicismi ridondanti e, a dir la verità, complicati e passanti persino al lettore professionista. L'evoluzione a cui faccio riferimento ha, come principale punto di studio, un passaggio dall'estremo utilizzo della musicalità, ad un'attuale considerazione verso le forme dell'immagine e del suo potere emotivo. Questo passaggio rientra, specificatamente, in un determinato movimento che va da un accanito “neo-classicismo”, d'altronde inefficace rispetto all'evoluzione poi constatata, ad una poetica che tiene come principale caratteristica, oltre all'importanza nell'utilizzo dell'immagine, aspetti propri che toccano un'eventuale relazione tra neo-classicismo e preromanticismo. Tale gesto, come si evidenzierà successivamente, raggiunge la “perfezione che sorge sulla coscienza di una caducità dolente e viene ritrovata nelle forme e nei gesti perfetti ed ideali di una rinascita dell'arte antica”, alla maniera del Binni. Ciò nonostante, la poetica Cenacchiana ricostituisce una certa fedeltà verso il neo-classicismo, vivendo nelle sue condizioni più alte quando la passione romantica soffonde di calore una “impeccabile linearità”, costituita come “preludio alle forme romantiche del concreto, della suggestione mistica, dell'ineffabile musicale”. Qui, però, nasce una divergenza rilevante per la comprensione dell'opera in studio. Le inclinazioni verso le quali il Cenacchi protende con forza ingente e totale consapevolezza (esse legale, come si è detto, verso il neoclassicismo) sono evidenziate dalle differenze che il Binni istituisce di fronte ai concetti di “neoclassico” e “preromantico”. Qui appare di grande importanza la presenza dell'intendimento che il critico fa delle diverse concezioni che ognuno di questi stili ha del “sublime”, tutto ciò nelle loro punte più pure. In primo luogo, per i preromantici l'idea del sublime è quella delle “immagini ossianesche”(notti tempestose, immani catastrofi della natura, scene di orrore macabro). Questo concetto, a mio parere, sembra più legato ad un “tardo romanticismo”, tipico del Poe o di Bram Stocker. Mentre il preromanticismo si identifica come un confine tra il romanticismo sentimentale, proprio delle tardo Keats, Shalley, ecc., e il neoclassicismo. Dall'altra parte, per i neoclassici il sublime è “il passo sicuro ed uguale di apollo che scende tremendo e sereno”, è un “gesto statuario in cui la tensione e il movimento sono sublimati in calma superiore” (Binni). Ecco come, in base a questa divergenza, e in forza alle elezioni svolte dal poeta, tali principi si applicano nell'attività creativa del Cenacchi:

Eppure anche noi irradiamo
la nota di speranze immortali,
e poi la guardiamo risuonare
sul letto intrecciato dalle voci,
e contempliamo quando beve i fasci
di Gloria deflagrati da il plauso
per innalzarsi, gravida di luci,
e vibrar una sola volta ancora
sulla vertigine dell'assoluto.

Malgrado tutto sempre si rovina
dai candidi culmini d'un foglio,
ma a chi fùron cari i sorrisi
sempre sarà affrescato dai sospiri,
mentre culla ne la Pietà il capo
rapito al mareggiare dei drappi
chiaroscurati dal sogno d'un ombra
più fonda meno fonda, che profonda
nel biancheggiar della quiete di carne
su quei corpi, non già increspati
ma sol pacificati al flautato
distendersi di questo dramma,
seppur la Dea lieve di faville,
quasi in materno tormento s'accigli
a scrutar il corpo raffreddato dalla
continua tragedia dei mortali.

Sebbene tale “esaltazione” del gesto statuario, evoluzione principale del decorativismo freddo del “Turris Eburnea”, tende espressamente verso il concetto del “sublime” appena spiegato, è evidente quanto superino gli effetti della pittura e della scultura, tale e come il giovane Keats intuì nel momento che lesse “Venus and Adonis” di Shakespeare. Siffatti effetti, difatti, fecero impressione sul poeta Forlivese nel momento in cui esso lesse “Endimione” (John Keats, 1918), ripetendo ciò che il Keats provò con Shakespeare date le coincidenze razionali e di gusto tra l'opera del poeta inglese e i propri pareri rispetto al processo creativo. Tale visione, in un certo modo, è la visione che Winckelmann offre agli scrittori romantici (e neoclassici, a proposito) come un modello “forte e suggestivo dell'antica Grecia” (Aske).
Tuttavia, a proposito di tali movimenti oscillanti tra uno stile e l'altro, viene in mente un quesito fondamentale per la comprensione dell'evoluzione Cenacchiana: Qual'è il punto di coincidenza tra la poetica Cenacchiana e quella Keatsiana? 
La risposta è evidente nella lontananza che ognuno dei poeti qui trattati istituisce rispetto agli ideali dominanti. In verità, sia Keats che il Cenacchi si allontanano, non in maniera eccessiva, dal modello di Winckelmann. Il punto divergente sta nel fatto che il Cenacchi, attenendosi ancora ai suoi maestri originari come il Foscolo e il Monti, non si allontana affatto di quelle “condizioni intime di ricchezza spirituali” costituite in “gesti essenziali e pacati, simboli, appunto, di forza stoica, di meditativa saggezza superiore ad ogni tempesta sentimentale”, raggiungendo così momenti di “nobile semplicità e la calma grandezza” teorizzati dal Winckelmann (tradotti, secondo il Binni, in accademica vuotezza o in scenografia). A questo, dall'altro canto, si aggiunge il tipico stile florale di Keats, il che contesta, al contempo, i modelli dell'antichità. E' così come, di conseguenza, la poesia del Cenacchi si configura come un'opera innovativa nel “ritorno ciclico”, avvenuto in ragione degli ideali antichi:

Quando il muschio crinisce l'asfalto,
inteneritosi nell'inattesa
paternità, e le fronde soffuse
d'alate fughe, non ancor toccate,
ma sol sfiorate dal trillar de' baci,
e i campi s'ìrrigano di sorrisi,
allora il contadino s'accorge
che la Figlia è tornata alla Madre


IV

Cause di insuccesso del neo-tradizionalismo.

a) Insuccesso e articolazioni del pubblico.

Oltre le innumerevoli spiegazioni riguardanti la giustificata e ormai accennata esistenza della corrente presa in considerazione, risulta necessario studiare ed esporre il rapporto che essa sostiene con la realtà in cui si genera, agisce e si confronta continuamente. La verità è che, tenendo conto dei diversi meccanismi che regnano il contesto qui presentato, il neo tradizionalismo risulta essere un movimento impopolare e di poco successo. Le cause relative a tali circostanze hanno determinate origini e uno svolgimento non molto difficile da comprendere.
La prima causa è, per così dire, quella che si configura come l'origine di ogni forma di impopolarità della corrente qui esposta. Essa concerne processi, sistemi organizzativi e conseguenze culturali del fenomeno cosiddetto “globalizzazione”, fenomeno proclamato, di fatto, in una situazione egemonica rispetto ad altri processi rivoluzionari e sistemi politico-economici ormai sconfitta vent'anni fa. 
E' proprio da queste condizioni geopolitiche e culturali che si generano le circostanze che annientano la popolarità sopra menzionata e che , in aggiunta, assecondano i principi morali ed estetici che la conformano: si veda quanto influisce la globalità culturale sui meccanismi inerenti alle articolazioni del pubblico libraio, l'egemonia di certe concezioni sul funzionamento e la pratica dell'economia rispetto a mercati che hanno come principale asse di extra-profitto la produzione di libri o di prodotti di consumo di simile caratteristica e funzione.
Non penso sia necessario indicare quali siano state le cause e le conseguenze dei processi di globalizzazione, e nemmeno descrivere il suo impatto nella quotidianità della collettività (intesa proprio come insieme di cittadini che formano una determinata comunità statuale, sia come come insieme di operatori economici sistemati in base alla presenza fondamentale dell'operare di enti che svolgono attività di produzione e di altre complessi che si configurano in base alle attività di consumo). La verità è che quello che producono i meccanismi globalizzanti rispetto all'azione di determinati movimenti letterari, nonché sulla poesia nella sua pressoché totalità, ha delle determinate somiglianze in riguardo alle conseguenze che si generarono ai tempi delle due prime rivoluzioni industriali in ragione della formazione di nuove forme di letteratura e ai meccanismi di lettura che ne conseguono. Ecco come la prima similitudine che illumina gli occhi dello studioso concerne il fatto che questi processi rivoluzionari “trasformano la società” e, di conseguenza, la letteratura nei suoi diversi livelli di esistenza. La differenza, in questo caso in particolare, è che le due prime rivoluzioni industriali portarono con sé nuove forme letterarie, distinte dai meccanismi creativi caratterizzati anteriormente, e che, in un certo modo, hanno intensificato l'attività dei lettori che, allora, si configurava come una succinta massa di individui appartenenti ad un ambiente strettamente aristocratico. Si veda, poi, come la seconda rivoluzione industriale provocò gloria e declamazioni del fenomeno decadente e di ciò che dopo i diversi settori della borghesia industriale elogerebbero rispetto ai suoi rispettivi allargamenti, e cioè nascita e morte delle avanguardie.
Tuttavia, l'evolversi delle società industriali e la pressoché estinzione della letteratura puramente avanguardista hanno prodotto fenomeni assai curiosi nel susseguirsi dei meccanismi che hanno come principale centro di imputazione il rapporto tra produzione di letteratura, e cioè l'operare di uno scrittore e il pubblico che sostiene i meccanismi di mercato nell'eventuale svolgimento dell'industria editoriale:

«L'insieme della vecchia e della nuova utenza non da più l'immagine di una comunità organica, forte del suo privilegio di accesso ai testi scritti e unificata dal culto di un sistema di valori estetici. Si capiscono quindi le reazioni sconcertate, spaventate di gran parte dell'ufficialità letteraria. Invece di apprezzare la spinta alla dinamizzandone e all'irrobustimento di una vita culturale tradizionalmente troppo elitaria, si è preferito concentrare l'attenzione sugli squilibri e le contraddizioni indubbie aperte dall'entrata in campo di ceti in precedenza esclusi dalla fruizione della parola letteraria, e portatori di istanze diverse da quelle degli umanisti raffinati.»

E' qui che, in un tentativo (d'altronde ben riuscito) di spinta democratica che tendesse a riformare le articolazioni del pubblico che cambia, sia la qualità dello scrittore, sia le caratteristiche essenziali del pubblico libraio. Eppure è così come la globalizzazione , strappando il dominio totale della cultura a circoli elitari pre-industriali, ha portato un sistema enormemente innovativo che provoca, oggi, le ragioni delle nuove configurazioni tra le relazioni conformate fra autore-opinione pubblica e singolo lettore. Il nuovo sistema portato a spese della terza rivoluzione di carattere industriale genera, così, “esiti di omologazione su livelli di medietà”, e insieme “dà luogo a una somma di spinte alla differenziazione, in rispondenza all'insorgere di interessi e desideri inediti nell'immaginario di una collettività assai composita”. Esiste, in proposito, il fiorire di uno schema ordinato che presenta la prospettiva essenziale rispetto ai rapporti tra autore e lettore: uno schema che organizza il consumo di opere letterarie in funzione del livello di comprensione e valutazione dei lettori rispetto a determinate opere. Ecco come tale funzioni in riguardo ai rapporti appena accennati, aprono la soglia non solo di un nuovo ordine di autori e lettori, ma anche di nuove strutture letterarie che estremizzano la nozione di “genere” e permettono di applicare, senza tanta fedeltà il principio per cui “L'arte è cosa divina; ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori”. In questo ambito si presenta, di conseguenza, una struttura specifica, nella quale la corrente presa in considerazione potrebbe o meno posizionarsi come membro di una sistemazione specifica degli interessi dell'industriale dell'editoria, nonché dell'autore che si conforma come dipendente (autonomo?) e dei lettori. In effetti, proprio questo atteggiamento ha favorito la comparsa di nuovi generi commercialmente molto efficaci e la cui distribuzione funziona in ragione di un'ampia diffusione, come il poliziesco e la fantascienza, oltre alla stessa produzione fumettistica.

La pluralità di generi e lettori si conforma, così, in funzione di tre livelli:

- Al primo livello appartengono le scritture più intransigentemente sperimentali, cioè più “svincolate dalle canonistiche invalse”. In questo settore potrebbero rientrare le scritture legate alle avanguardie, oppure al susseguirsi di neo movimenti che trovano diretta ispirazione in queste correnti. Qui la cerchia di consumo è circoscritta agli intenditori, “pochi ma fedeli”.

- Al secondo livello troviamo la cosiddetta “letteratura istituzionale”: in questo cerchio si possono registrare i testi apprezzati da una “utenza desiderosa di appagare il proprio immaginario con prodotti estetici rispondenti all'idea di letterarietà resa più familiare da un discreto livello di istruzione scolastica”. In questo caso, prende molto rilievo l'esistenza del romanzo, in specie il romanzo storico, neo storico o antistorico, rappresentando se stessa come il luogo elettivo per l'insorgere del Best-seller.

- Terzo livello: la letteratura d'intrattenimento. Qui la funzionalità del prodotto è affidata a convenzioni di genere molto univoche. Ad esser chiamate in causa sono disposizioni emotive che coprono una gamma vasta di interessi psichici: il gioco dell'ilarità in tutte le sue sfumature, dalla comicità alla satira , la comicità, il terrore, ecc.

E' necessario precisare come il passaggio del primo livello al terzo conformi una particolare prospettiva: il passaggio dalla letteratura sperimentale, a quella d'intrattenimento configura, dall'alto verso il basso, maggiori profitti per l'industria editoriale. Difatti, il successo economico del terzo livello, data la marginalità dei prodotti di intrattenimento, comprova quanto diffusa sia l'esigenza di prodotti che evochino esplicitamente fatti, figure e circostanze tanto estremamente familiari rispetto alla realtà della collettività, quanto per prospettive altrettanto lontane, com'è il caso della lettura di fantascienza.

La poesia, in questo particolare schema, si potrebbe situare nel terzo livello. Tuttavia, solo una particolare forma di poesia potrebbe formare parte di tale genere: la poesia novecentesca o, nella fattispecie, la poesia romantica per “innamorati”. D'altronde, la poesia strettamente sperimentale, a prescindere dell'epoca in cui è stata prodotta, si situa, rispetto ai generi lirici sentimentali, in qualche gradino inferiore in proposito delle risultanze economiche e della diffusione che l'industria editoriale tende a farne. In questo caso, la corrente qui analizzata, quella del neo-tradizionalismo, non riesce nemmeno a posizionarsi in alcun livello precedentemente esibito, dati i mezzi di diffusione utilizzati dai singoli autori che compongono tale movimento (il web), il che li situa, appunto, al di fuori dei meccanismi economici di produzione, diffusione e consumo di prodotti letterari. Eppure, da un altra angolazione di vista, la natura della loro produzione e le caratteristiche estetiche del prodotto rendono noto quanto la loro letteratura sia opportuna solo ad una determinata modalità di lettori: i cosiddetti lettori “professionisti”, i quali non appartengono ad una percentuale molto diffusa del pubblico, conformato nelle sue articolazioni.

In questo contesto, risulta opportuno individuare un altro elemento rilevante alla determinazione delle cause dell'impopolarità del neo-tradizionalismo. Anche se, in base alle struttura conformata in livelli appena accennata, il mercato dei libri sembra essere un mercato fruttifero, i dati statistici dicono esattamente il contrario. L'istituto nazionale di statistica (ISTAT) pubblica le seguenti informazioni: “Il 44,3% della popolazione ha dichiarato di aver letto fino a 3 libri nell’ultimo anno, mentre soltanto il 15,1% ne ha letti 12 o più.” Questo, di certo, evidenzia come il basso livello di lettori che appartengono alla categoria di “lettori professionisti”, si posizioni in un livello infimo, provocando un evidente segno di impopolarità della poesia e, soprattutto, di determinati generi di quest'ultima.

b) Insuccesso e identità Europea.

L'idea europeista che si pone alla base dei protagonisti del neo-tradizionalismo è ben diversa a quella che tanto caratterizza i valori fondanti dell'attuale comunità Europea. Infatti, l'europeismo istituzionale, progetto politico non ancora realizzato dalle diverse nazioni presenti sul territorio, ha come base un insieme di ideali politico-sociali desumibili nelle parole dell'anarchico russo Michail Bakunin:

«Che al fine di ottenere il trionfo della libertà, pace e giustizia nelle relazioni internazionali d'Europa, e di rendere impossibile la guerra civile tra i vari popoli che compongono la famiglia europea, una sola strada è possibile: costituire gli Stati Uniti d'Europa.»

Il concetto dietro l'Europeismo di alcuni autori che conformano il neo-tradizionalismo è direttamente legato alla nozione del “classico”, soprattutto al modo in cui tale nozione caratterizza la cultura occidentale. Di conseguenza, possiamo riferire quanto l'europeismo si costituisca come base culturale più che politica dentro gli autori in questione (si veda come tali autori non fanno un riferimento contenutistico a questi elementi, ma questi siano rintracciabili nella estetica stessa della corrente in parola). E' questo che, da una parte, si costituisce come fonte di crisi nel rapporto tra la poetica riformulata dagli autori del movimento e la realtà in cui loro agiscono in continuità. Questo sta a significare, in questa specifica circostanza, quanto l'estetica tradizionale, che, come abbiamo detto prima, trae come modelli principali di ispirazione culturale le civiltà greco e romana, sia poco presa in considerazione, data la condizione di tali valori culturali ed estetici. E le cause di questa problematica sono due: l'ansia di globalità che grava sulla coscienza del cittadino Europeo (sul lettore, in particolare) e l'autodistruzione delle discipline che si occupano di studiare siffatte culture. La prima può avere diretta spiegazione nei concetti esposti da Salvatore Settis, nell'opera sopra citata:

«Questa concentrazione sul contemporaneo si spiega forse per l'ansia di intendere l'enorme complessità di un mondo “globale”, limitandosi a conoscerlo quale esso è oggi (e lo sforzo è già grande). Ma gli eventi della storia (anche di uno o due secoli fa) tendono così a parere poco interessanti, oppure ad essere evocati saltuariamente in funzione dell'attualità politica (per esempio americana, dotandoli di una sorta di contemporaneità fragile ed effimera, con una data di scadenza.»

Ecco come il rapporto tra cittadino e natura culturale di determinate civiltà si presenta mediante modalità analoghe nel rapporto tra autore (sua classico, neo-classico, romantico o neo-tradizionalista) e il lettore (quest'ultimo, essendo cittadino, soffre le stesse conseguenze menzionate prima). La crisi europea, commenta un professore di Berkeley, Nazar Al Sayyad, ha le sue fondamenta nel fatto che L'Europa stia “abbandonando la propria memoria storica e non sa più vedere se stessa come un prodotto della storia, ma identifica ormai la propria tradizione solo nella modernità, e cioè in valori dati per indiscutibili”. Questo, per certo, porta la cultura Europea a “fungere da mero serbatoio di exempla”.

Dall'altro canto l'insuccesso si proclama in ragione di una autodistruzione della materia studiata. Quest'ultima è dovuta ad una “radicale marginalizzazione degli studi classici” nella cultura generale e nei sistemi scolastici. Ecco come viene in mente un famoso pensiero di Goethe secondo cui le discipline possono “autodistruggersi” in due modi: o perché si attardano troppo sulla superficie delle cose, o per l'eccessiva profondità in cui si immergono. Ed è questo il caso della cultura appartenente alle civiltà in parola.

V

Conclusioni.

Anche se il neo-tradizionalismo risulta una corrente che trova una prima istanza di insuccesso nel lettore medio, nato dai nuovi processi di scolarizzazione e acculturazione, questi si configura, dentro il contesto culturale (nelle sue formalità tradizionali e dentro quelle di maggiore innovazione, come la diffusione di testi nei circuiti internet) come un movimento di grande valore data la sua diversità in un contesto che produce, ormai da un secolo, prodotti che costituiscono uno scenario letterario nazionale pressoché univoco in quanto a poetiche. In questa prospettiva, il neo-tradizionalismo intende dare una spinta democratica al contesto in cui agisce, e questo attraverso la sola presenza di un'alternativa valida e sommamente qualitativa all'egemonia delle poetiche nate, progredite e affermatesi nel novecento. Ciò viene istituito grazie al pluralismo che il movimento contiene nella sua composizione (si vedano le divergenze tra il classicismo di Cenacchi e il decadentismo proprio di Cerruti) e che tenta di contagiare alle forme chiuse della odierna poesia Italiana. D'altronde, per quanto riguarda la sua “necessaria esistenza”, non sarà questa la sede di riferimento per tali considerazioni, data l'iterazione svolta nei precedenti scritti, articolati in base ai singoli membri della corrente qui esposta.

Yerko Andres Sermini

giovedì 5 aprile 2012

Una stagione all'inferno, di Arthur Rimbaud.



Arthur Rimbaud (1854 - 1891) è stato un poeta delle grandi variazioni dentro la propria natura esperimentale. Trattare la sua figura è, più o meno, un'impresa di grandi salti che portano alla convulsione generale di ciò che potrebbe essere denominato il “buon costume” letterario, proprio della classe Borghese affermatasi in Europa dopo la grande rivoluzione francese. Il contesto storico culturale che innescava la necessità di sostanziare formalmente determinate contraddizioni proprie di tale epoca storica modella, in un certo qual modo, tutto ciò che riguarda l'evoluzione della poetica simbolista e, soprattutto, ogni aspetto della grande formazione di ciò che Rimbaud intitolò “Una stagione all'inferno” (Une saison en enfer - 1873), e che sarà oggetto centrale di questo articolo.
Prima di continuare con l'opera specificata, è necessario precisare ciò che è il nucleo generativo dell'opera, e cioè la filosofia che l'autore premetteva nella corrispondenza Epistolare col suo amico Paul Demeny e che dopo sarebbe stato applicata all'opera in parola:

«Il poeta si fa veggente mediante una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, egli esaurisce in lui tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura dove egli ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, dove egli diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, - e il supremo Sapiente! - Poiché egli arriva all'ignoto! dopo che ha coltivato la sua anima, già ricca, più di chiunque altro! Arriva all'ignoto, e seppure, impazzito, finirà per perdere l'intelligenza delle sue visioni, egli le ha viste! Che crepi nel suo salto verso le cose inaudite e innumerabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti dove l'altro s'è accasciato!»

Tale sregolatezza permette a Rimbaud di cominciare la stesura dell'opera che, apparentemente, lo porterebbe in un viaggio immaginario verso e dentro l'inferno. Lo smarrimento e la totale mancanza di razionalità gli danno l'impulso essenziale per concepire un'opera caratterizzata dall'apertura delle sue strutture, dalla pluralità delle forme e dalla totale violazione delle regole imposte dal tempo e la tradizione. La estraneazione dal cd. “soggettivismo romantico” e l'entrata nella totale occupazione delle sfere dell'inconscio (procedimento che darebbe passo poi alle tipiche caratteristiche del movimento surrealista), attribuiscono, alla composizione poetica dell'opera, un carattere di totale novità nel rispetto delle forme anteriormente presenti. Tuttavia la struttura della saison (contenuta da nove frammenti: un proemio declamatorio e le conseguenti parti strutturate dallo stesso autore: “cattivo sangue”, “notte nell'inferno”, due parti di una sezione chiamata “deliri”, “l'impossibile”, “il lampo”, “il mattino” e “Addio”) non viene regolata su concezioni del tutto irrazionali, com'è considerato per la struttura formale e contenutistica dell'opera . L'origine del lavoro poetico qui preso in considerazione ha, secondo la critica, una radice correlativa alla globale congiuntura geopolitica di quel preciso momento storico e alle conseguenti influenze che tali condizioni hanno definito nell'animo e nella coscienza del poeta francese. Attraverso una struttura che coniuga la narrativa e l'autonomia organizzativa tipica della poesia, Rimbaud rappresenta quel che è la estremizzazione specifica di uno stato spirituale già presente nelle sue opere anteriori più note (Poésies, Le batau iuvre), e cioè l'esagerazione di un declamatore senso di intolleranza e disapprovazione nei riguardi di ciò che in “Le batau iuvre” risulta essere un'Europa commerciale e militare, cagione principale della disaffezione verso la realtà:

Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
nera e fredda dove verso il crepuscolo odoroso
un fanciullo inginocchiato e pieno di tristezza, lascia
un fragile battello come una farfalla di maggio



Non ne posso più, bagnato dai vostri languori, o onde,
di filare nella scia dei portatori di cotone,
né di fendere l'orgoglio di bandiere e fuochi,
e di nuotare sotto gli orrendi occhi dei pontoni.

Rimbaud, durante la stesura dell'opera, esplica quello che i professori delle superiori chiamerebbero “una rappresentazione assolutamente soggettiva della realtà, al contrario delle metodologie della letteratura positivista”. Tale realtà, per il poeta, è una realtà folta di tristezza e disperazione: l'età della tecnica e l'aumento dei livelli di alienazione mettono, nella preparazione di Une saison en enfer , le basi per la concezione di un viaggio non più liberatorio, il che significherebbe l'inizio della elaborazione di concezioni che darebbero inizio alla totale sfiducia di Rimbaud sull'utilità dell'atto creativo, soprattutto quello poetico. In quest'opera, l'autocritica, le recriminazioni e le amare giustificazioni sporadiche trovano un giusto elemento associativo al continuo innalzamento del tono e la voce:

«Un tempo, se ricordo bene, la mia vita era un festino in cui tutti i cuori s’aprivano, in cui tutti i vini scorrevano.
Una sera, ho preso la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho sentita amara. – E l’ho insultata.
Mi sono armato contro la giustizia.
Sono fuggito. O streghe, o miseria, o odio, a voi è stato affidato il mio tesoro!
Riuscii a far svanire nel mio spirito tutta l’umana speranza. Su ogni gioia, per strozzarla, ho fatto il balzo sordo della bestia feroce.
Ho implorato i carnefici per mordere, morendo, il calcio dei loro fucili. Ho invocato i flagelli, per soffocarmi con la sabbia, con il sangue. La sventura è stata il mio dio. Mi sono steso nel fango. Mi sono asciugato all’aria del delitto. Ed ho giocato qualche bel tiro alla follia. »

Ecco come l'opera, oltre a funzionare come analisi di una voyance, descrive, anche, una situazione di grande “abbandono”. Una trasformazione che si allontana dai grandi aneliti che l'arte avanguardista di fine ottocento metteva a disposizione di apparenti cambiamenti sociali copernicani come quelli perseguiti dai movimenti politici di matrice socialista. A questo punto, Rimbaud cambia prospettiva: sostituisce la necessità di conciliare poesia e potenziali cambiamenti sociali, idealismo e veggenza con la solitudine e l'alienazione che l'età della tecnica hanno portato alla vita delle persone fisiche: il viaggio nell'inferno Rimbaudiano non risulta essere altro che un atto di fuga dalla realtà, oltre al rifiuto del ruolo di militante dentro una concezione che incentrava il ruolo sociale nelle forme d'arte dell'epoca. E' così che Rimbaud, oltre ad effettuare una critica aggressiva nei confronti della “banale” classe borghese Francese, dilata le sue considerazioni nei confronti degli stessi artisti, in particolare nei riguardi del suo maestro e amante Paul Verlaine, che fungerebbe, in questo caso, da individuo metodologico, tale e come viene asserito in “L'impossibile”:

«Ho avuto ragione di disprezzare quei brav'uomini che non perderebbero mail l'occasione di una carezza, parassiti della pulizia e della salute delle nostre donne, oggi che esse vanno così poco d'accordo con noi.
(…) in quanti siamo dannati quaggiù! Quanto tempo ho già passato fra questa turba! Li conosco tutti. Ci riconosciamo sempre; ci facciamo schifo. La carità ci è sconosciuta. Ma siamo bene educati; le nostre relazioni colla gente sono molto corrette: C'è di che stupirsi? La gente! I mercanti, che ingenui!»

Sono queste le prospettive che ci permettono di arrivare alla conclusione di quanto sia stato elevato il grado di isolamento che Rimbaud sentì nelle ultime fasi della propria vita. Così come lo fu la propria esperienza, l'opera in questione modella una prospettiva che pone l'umanità, nelle sue condizioni peri-industriali, come circostanza di lotta senza che vi sia nessuna promessa dall'alto che permetta un sollevamento dei dolori: “La lotta spirituale è brutale quanto la battaglia fra uomini; ma la visione della giustizia è solo un piacere di Dio”.

In fine l'”Addio”, ultimo frammento dell'opera, pur avendo come parte conclusiva motivi del tutto pessimistici, si manifesta in maniera ottimistica e favorevole ad una visione quasi apertamente religiosa nei riguardi di un'altra dimensione della vita:

Intanto è la veglia. Accogliamo tutti gli influssi di vigore e di tenerezza reale. E all’aurora, armati di ardente pazienza, entreremo nelle splendide città.“

Yerko Andres Sermini

venerdì 16 marzo 2012

Breve trattazione di Personae, Lustra e Ripostes, di Ezra Pound


I

Trattare la figura di Ezra Pound – al di fuori delle polemiche di carattere ideologico – è toccare uno dei punti centrali del panorama culturale del già andato ventesimo secolo. Questo non soltanto mercé della sua attività poetica, ma anche della capacità lodevole con cui esercitò sia un lavoro di teorizzazione estetica sui principi fondamentali della poesia occidentale, sia in base alla attività promotrice nel rispetto delle figure dominanti dello scenario poetico che gli è toccato contemplare. Difatti molti degli amanti della poesia novecentesca tendono ad apprezzare più il suo lavoro critico, presente nella raccolta “Literary Essays of Ezra Pound” (Saggi Letterari – Aldo Garzanti Editore, 1957. Traduzione di Nemi d'Agostino), a cura dello stesso T.S. Eliot, che la sì tanto celebre opera “The Cantos”, ricca di elogi posti da parte degli amanti della tanto nota metodologia sperimentale caratterizzante la poesia prodotta soprattutto nella prima metà del novecento.

Tuttavia la verità riguardante il lavoro poetico dell'autore Americano è che la sua opera poetica non va ridotta ai “Cantos”, ma deve essere estesa ad una prospettiva assai più larga delle prospettive proprie dell'opera sperimentale, fino a ridare all'opera del poeta un carattere dinamico. In effetti la teorizzazione critica effettuata dal Pound (che non è altro, su molti aspetti, che un novero non tanto esiguo di consigli ai poeti della sua generazione) si esibisce come nucleo principale dell'esercizio estetico che il poeta ha posto in essere in tre delle opere anteriori ai “Cantos”: “Personae” (1908-1910), Ripostes (1912) e “Lustra” (1916). Ecco come, di primo acchito, la differenza presente in una determinata evoluzione dell'opera Poundiana appare netta: nelle tre opere appena elencate, Pound risulta essere un vero e proprio tradizionalista dentro i limiti della letteratura in lingua inglese: erede delle virtù dell'età vittoriana (Browning e Swinburne), tardo vittoriana (Johnson e Dowson), e post vittoriana (Hardy, Yeats e Symons).
E' proprio sulla base di questi presupposti e nella fedeltà pressoché massima verso il rispetto di questi principi che si costruisce la poetica inerente a “Personae”. Quest'opera si costituisce come il tentativo di riprendere ciò che, in precedenza, e attenendosi alle proprie affermazioni di quanto espresso nella sua attività critica, cioè precisando circostanze riguardanti l'evolversi delle anteriori tradizioni letterarie, era stato costruito in maniera lucida e ragionevole:

« Il ritorno alle origini rinvigorisce perché è un ritorno alla natura e alla ragione. L'uomo che ritorna alle origini lo fa in quanto desidera comportarsi in quel modo che è eternamente ragionevole. Cioè in modo naturale, intuitivo, conforme alla ragione. Egli non desidera fare la cosa giusta nel momento sbagliato, coprire un bue di bardature, come dice Dante. Non vuole pedagogia, ma armonia, la cosa che è a tono.»

Ecco come appare innanzi alla coscienza del critico, e del lettore sveglio e curioso, la domanda principale di questo momento nell'opera di Pound: cosa è la tradizione? La risposta è, nel cerchio riguardante le concezioni Poundiane, facilmente reperibili. Infatti, nella sua opera teorica cenni specifici esistono. Da una parte, il Pound definisce la tradizione come “una bellezza che noi conserviamo, e non una serie di catene che ci leghino”. Tuttavia tale definizione, rispetto all'analisi della lirica qui messa in studio, non appaga le esigenze poste in forza dell'attività poetica dell'autore. Così riesce ad essere più efficace la definizione esemplificativa per cui «Le due grandi tradizioni liriche che più ci interessano sono quella dei poeti Melici e quella di Provenza. Di cui dalla prima sorse praticamente tutta la poesia del “mondo antico”, dalla seconda, praticamente, tutta la poesia del “mondo moderno”». Ma le letture non si riducono a questa dicotomia. I consigli di Pound precisano, in saggi successivi a “La tradizione” (Poetry, III, 3 – diciembre 1913), un novero di letture che specificano i concetti di “mondo antico” e “mondo moderno”. Nel saggio “Come bisogna leggere” (New York Herald, “books” - 1927 o 1928) Pound istituisce una classificazione che, secondo lui, dovrebbe aiutare i poeti a modellare il proprio stile, e che, in una certa misura, aiuterebbe a modellare la propria poetica esordiente. La classificazione si traccia nella funzione che gli autori hanno ricoperto nell'evoluzione delle lettere universali. Ecco come si dà importanza a “gli inventori”, e cioè uomini che hanno scoperto un particolare procedimento, o più di un modo e procedimento (Arnaut Daniel e Guido Cavalcanti); “i maestri”, classe limitatissima, usato propriamente per gli inventori che, a parte le loro proprie invenzioni, sono capaci di assimilare e coordinare una gran quantità di invenzioni precedenti; ”I diluitori”: coloro che si mettono al seguito degli inventori o dei “grandi scrittori”, e che producono qualcosa di di minore intensità qualche variante più fiacca, qualche ridondanza o tumidità nella scia dell'opera valida; una classe “innominata”, a cui appartiene la gran massa di tutta la letteratura , e cioè gli uomini che fanno più o meno un buon lavoro un buon lavoro nello stile più o meno buono di un periodo. Eseguire una scelta rigorosa tra questi è questione di mero gusto: perché si preferisce Wyatt a Donne, Donne a Herrick, Drummond di Hawthornden a Brown? Per una simpatia puramente privata. Questi non esistono in sé, ma il loro ambiente conferisce loro un'esistenza: “Quando sono estremamente prolifici, danno luogo a casi dubbi come un virgilio e un Petrarca, che probabilmente, fra i meno esigenti, passano per colossi”; un novero chiamato “Belles Lettres, a cui appartiene Longo, Prévost, Constant, che sono non esattamente “grandi maestri”, ma che hanno portato nondimeno qualche modo espressivo ad un altissimo sviluppo; e vi è una classe sesta o supplementare di scrittori , gli iniziatori di manie; i Gongora, i McPherson ossianici.

Specificatamente la poetica Poundiana degli esordi si incentra su una diretta azione creativa che ispira il proprio andamento sulle prime tre categorie presentate. La tradizione e l'innovazione presentata da determinati autori di grande rilievo letterario hanno permesso che gran parte del contenuto di “Personae”, ma anche di “Ripostes”, fosse di gran lunga vicina ad una specifica concezione sullo stile. Esempio chiaro di questa rappresentanza è il componimento “The tree”, che in maniera curiosa (data la vicinanza tra i metodi utilizzati da determinate tradizioni e i procedimenti usati dall'autore in questione) presta elementi panistici propri del tardo ottocento:

I stood still and was a tree amid the wood,
Knowing the truth of things unseen before;
Of Daphne and the laurel bow
And that god-feasting couple old
that grew elm-oak amid the wold.
'Twas not until the gods had been
Kindly entreated, and been brought within
Unto the hearth of their heart's home
That they might do this wonder thing;
Nathless I have been a tree amid the wood
And many a new thing understood
That was rank folly to my head before.

In questo caso, le discrepanze non mancano. Il Pound, sia in “Personae” che in “Lustra”, arricchisce le proprie opere di un'aria satirica e persino ideologicamente carica di esasperazione per le esigenze dell'epoca. E ' questo il caso del componimento “Sestina: Altaforte”:

The man who fears war and squats opposing 

My words for stour, hath no blood of crimson 

But is fit only to rot in womanish peace 

Far from where worth's won and the swords clash 
For the death of such sluts I go rejoicing; 
Yea, I fill all the air with my music. 



E' necessario, dall'altra parte, e prima di arrivare a trattare brevemente i cambiamenti presenti in “Lustra”, creare un paragone tra il cambiamento espressivo nell'opera di Pound e il carattere correlativo generato tra esso e il cambiamento espressivo nell'opera di W.B. Yeats. Yeats, sotto la spinta dello stesso Pound, sacrifica il proprio lirismo ad un'agile giustapposizione tra il poetico e il prosastico. Questa giustapposizione non è quella che percepiamo nella tipica letteratura americana di Lee Masters o quella che caratterizza il secondo novecento Italiano (Montale - Diario del 71 e del 72), ma risulta essere molto più lirica di quanto non lo sia negli esempi appena elencati . Ecco come le sottigliezze di questa giustapposizione rientrano nel fascino presente nel componimento “Francesca”:

You came in out of the night
And there were flowers in your hand,
Now you will come out of a confusion of people,
Out of a turmoil of speech about you.
I who have seen you amid the primal things
Was angry when they spoke your name
IN ordinary places.
I would that the cool waves might flow over my mind,
And that the world should dry as a dead leaf,
Or as a dandelion see-pod and be swept away,
So that I might find you again,
Alone.

In Lustra, Pound estremizza le componenti satiriche e ironiche già presenti nelle altre opere, chiudendo la separazione che si provoca tra i tratti caratteristici delle prime opere, e le scelte riguardanti la costruzione dei “Cantos”. Difatti, l'autore apre la raccolta con un componimento (Tenzone – 1916) che presume i rischi che tale scelta stilistica e contenutistica potrà ripercuotere nell'ambiente letterario di allora:

Will people accept them?

(i.e. these songs).

As a timorous wench from a centaur

(or a centurion),
Already they flee, howling in terror.

Will they be touched with the verisimilitudes?
Their virgin stupidity is untemptable.
I beg you, my friendly critics,
Do not set about to procure me an audience.

I mate with my free kind upon the crags;
the hidden recesses
Have heard the echo ofmy heels,
in the cool light,
in the darkness.



II

E' proprio a questo punto della trattazione che sorgono le problematiche legate ai contrasti tra ciò che concerne la natura delle opere appena elencate e la teorizzazione del modernismo appartenente all'opera dell'autore in parola. Prima di esibire tale contrasto, è necessario precisare cosa si intenda per “tradizione poetica”, a seconda delle teorie presentate dallo stesso Pound (esigenza già appagata in precedenza) e cosa invece si intenda per “modernismo”, a seconda delle formulazioni critiche ricavate dalle opere di autori apparentemente appartenenti a tale corrente.
Per quanto concerne il “modernismo” possiamo, ancora in maniera assai abbreviata, intendere la sua natura attraverso una determinata differenziazione dalle concezioni che i movimenti letterari appartenenti all'avanguardia hanno sul ruolo dell'innovazione. Il modernismo, a differenza dell'avanguardia, crea opere particolarmente innovative, che influenzano successive generazioni, ma complessivamente la loro estraneazione nei confronti della cultura contemporanea , e la paura di perdere le fondamenta della tradizione artistica li ha indotti a cercare – anche all'interno delle loro stesse innovazioni – di sostenere la tradizione alta dell'arte. “Una tradizione che avrebbe trasceso o svalutato il mutamento apparentemente disgregante della società e della storia, che acuiva la sensazione della loro modernità.
Dall'altra parte l'avanguardia è rappresentata da scrittori e movimenti tutti concordi nel trovare la tradizione artistica e la cultura alta eccessivamente limitative rispetto alla loro ansia di dichiararsi all'avanguardia di una cultura radicalmente nuova. Ed è proprio qui che Pound, e maggior parte del modernismo, trova il punto cardine delle proprie contraddizioni: se ci atteniamo alla definizione comparativa appena accennata, e prendiamo in considerazione la natura dei “CANTOS”, applicazione poetica dei principi contenuti nel “Make it new” (Londra, 1934), ci rendiamo conto che la vera forma poetica che si attiene fedelmente alle concezioni appena accennate di modernismo solo quelle presenti nelle tre opere qui studiate. D'altronde, se questa affermazione fosse poco precisa, si tratterebbe di una dimostrazione del fatto che il modernismo Poundiano non esiste rispetto all'atteggiamento che i poeti modernisti dovrebbero avere rispetto alla tradizione. Basta leggere i “Cantos”, e ci si rende conto di quanto le opere qui studiate siano più vicine al modernismo teorizzato dalla critica.   


Yerko Andres Sermini