martedì 31 agosto 2010

I celebrate myself / W.W. e il suo albero gigante.


L'attenzione si sposta (purtroppo?) verso la dittatura dello humour. La giornata di lavoro è stata assai intensa; a causa di essa ho realizzato la precarietà del mio entusiasmo. La fame di sapienza ,ormai, non c'è più da molto tempo; nemmeno l’amore per la conoscenza. La malinconia domina, quasi totalmente, il mio “presente” e questo mi spinge a rileggere, con piacere, ma anche con una certa pigrizia, i primi libri che ho assaporato in lingua italiana. Così, nel confine tra accidia e sonno, ho aperto il mio baule magico e il primo oggetto che appare, innanzi a i miei occhi, è «Foglie d'erba» di Whitman che è alquanto maltrattato come, tutti i miei libri: ha un paio di macchie bianche sul logo “Bur poesie” e l'edizione data esattamente giugno 1988. Alla prima occhiata mi viene in mente la prima frase che proferii ad alta voce quando finii di leggere quest'opera: «Questo non è un libro, è un maledetto albero!»; invero l’edizione rassomiglia ad un vegetale in tutto e per tutto: la copertina verde-acqua e il «Kindred Spirits» di Durand, situato in mezzo a questa, trasforma l'aspetto del libro in un vero “foliage“.
Già aperto il libro mi ritrovo con un significativo ritratto( olio su tela) di Whitman dipinto da Herbert Harlakenden Gilchrist. L'affresco mostra il poeta come un uomo tranquillo, abbastanza saggio e corretto, la sua barba è sproporzionatamente bianca. L'immagine sembrerebbe rappresentare Withman come un eroe, quasi una specie di “figura religiosa”. Sì, probabilmente, può anche essere un’ immagine veritiera: la sua poesia lo rende una strana specie di profeta non riconosciuto dalla chiesa; siamo noi lettori, appassionati di poesia, a dare forza a questa immagine( che sia, in realtà, una chimera?).
Parlare su Whitman significa, inevitabilmente, parlare sull'America. Walt non è altro che uno degli artèfici principali di quella “forma” che ha caratterizzato la letteratura Americana: una forma basata sulla “semplicità” fascinosa e sulla tanto agognata “libertà” che si ritrova ancora negli annali della politica statunitense. Il poeta in questione fu, senza dubbio, un cantore legittimo della “democrazia” e, soprattutto, dell'uomo stesso. Le sue creazioni vanno aldilà dei soliti discorsi contenuti da idee logiche e si manifestano in “canti assoluti”. L'albero,tuttavia, non finisce qui! Anzi, sembra raggiungere il cielo: prende la medesima forma di un sogno magnanimo e la sua presentazione è un’ immensa metafora che rimanda al racconto popolare inglese «Jack e la pianta di fagioli». Così noi lettori ci arrampichiamo su per la pianta e troviamo il vecchio poeta seduto, impegnato a cantare i suoi ideali. Dall'alto, il gigante Whitman, si esibisce come poeta che utilizza il proprio io per cantare al mondo. Riesce perfettamente a trasformare la propria carne e il proprio alito in erba e terra di tutti. Ricordo molto bene il commento fatto da Skarmeta nel momento in cui segnalò che «Whitman è l'esempio vivace di quei poeti che hanno l'universalità immersa persino nei peli della barba». Infatti, il poeta, trasforma il proprio egocentrismo in materiale intrinseco di questa universalità:

«I celebrate myself, and sing myself,
And what i assume you shall assume,
For every atom belonging to me as good belongs to you.»

In una lettura, datata 18 ottobre 1882, dopo quasi trent'anni dalla prima pubblicazione di «Foglie d'erba», Gerald M. Hopkins, poeta e gesuita, confessava a Robert Bridges la sua profonda e inquieta ammirazione per Walt Whitman. Non ne aveva letto molto, ma quanto aveva visto gli bastava per renderlo consapevole di una fascinazione tale da trasformare la lettura in una «voluttà colpevole»; cos'è che rende la poesia di Whitman una composizione così affascinante ? Sarà la sua aria liberatrice? Oppure il suo modo discorsivo ed esageratamente colloquiale? Hopkins era affascinato da ciò che, in alcuni casi, può, in primo luogo, interessare un poeta: il ritmo. Quei versi, lunghi, irregolari, hanno costituito uno stile decisamente influente per la sublime posterità di poeti. Anzi, lo stesso Ezra Pound omaggiò Withman con il poema «Patto»:

«Stringo un patto con te, Walt Whitman:
Ti ho detestato ormai per troppo tempo.
Vengo a te come un figlio cresciuto
Che ha avuto un padre dalla testa dura;
Ora sono abbastanza grande per fare amicizia.
Fosti tu ad abbattere il nuovo legno,
Ora è tempo d'intagliarlo.
Abbiamo un solo fusto e una sola radice:
Ristabiliamo commercio tra noi.»

Allen Ginsberg, erede diretto sia di Whitman che delle avanguardie storiche, lo immaginava al suo fianco nelle infinite notti trascorse a Barkley, negli anni cinquanta:

«Come ti penso stasera, Walt Whitman, perché camminavo per piccole strade sotto gli alberi col mal di testa guardando consapevole la luna piena.»

D'altra parte, Il problema di Whitman, chiaramente, sono le idee: la disavventura del poeta non fu quella di non esprimere delle idee, ma quella di liberarsi di una certa “realtà” inevitabile. Nel momento in cui lessi, per la prima volta, il celeberrimo «Fogliame» Whitmaniano non ero mai stato di fronte a un autore così idealista e diplomatico; circostanza che a volte diventa assai odiosa, quasi quanto il discorso amoroso. E’ qui che il lettore deve farsi strada tra le macerie instabili di questa “America” divisa fra idealismo (necessario?) e reale complessione. Insomma, il suo ottimismo ,in tempi in cui era più facile essere pessimista ”diede ( difatti si attraversava, a causa la guerra civile, uno dei periodi più oscuri della storia degli Stati Uniti) al poeta un'importanza quasi totalmente legata “all’aspetto” della tradizione letteraria Americana. Le sue impronte morali e spirituali non sono altro che parole calpestate dalla storia stessa e dagli archivi. Leggere Walt Whitman attualmente è un atto che invoca, inevitabilmente, una serie di fonti di illuminazione visto che la sua, così amata, “democrazia” è stata uccisa e stuprata dai suoi stessi compatrioti. Così l'anima di Whitman è, per eccellenza, un luogo invisibile, ignaro di idee, senza nome; qualcosa cui ci si può rivolgere solo grazie ad incantesimi. E’ questo che gli si ringrazia più attentamente al poeta: un certo innalzamento della bellezza come ideale costante e come componente spontaneo di quei raggi di sole che, ogni tanto, ci sfiorano il capo.

Yerko Andres Sermini.