lunedì 1 novembre 2010

Jessica Naldi: poesia androgina.

Jessica Naldi è nata a Cesena il 21 luglio 199*; la sua produzione poetica è iniziata in età precoce, nello stesso modo in cui i suoi “padri letterari” provavano il gusto per la composizione. La sua opera, al meno il mucchio di componimenti scelti per questa pubblicazione, si può ritenere un elemento pressoché anonimo, oppure underground, visto che le creazioni sono passate da un numero ristretto di persone, evitando i condizionamenti della pubblica opinione.
Per quanto riguarda la sua poesia, la Naldi, è tanto oscura quanto i suoi occhi marroni: tutto si svolge dentro uno sfondo bianco, soffice, proprio come i suoi dolci anni. Le sue opere, nel complesso, sono cariche di animismi oscuri, a volte illuminati, accompagnati dal tipico pathos giovanile che si scopre in determinati frangenti del percorso esistenziale d'una persona . Proprio lì, nel pathos, si denota, in modo assai costante, il senso acuto dell'essere femminino; il tutto, però, attraverso un tono asessuato, universale che riesce a condizionare l'aspetto discorsivo dei componimenti; sifatto senso di femminilità viene raccordata ad opinioni antitetiche ai caratteri essenziali d'una generazione ritenuta “propria”.
La solitudine ed il dolore vengono accompagnati da questo desio di ribellione nei confronti di un complesso sociale ancora non accettato dalla fragile sensibilità dell'autrice; così , come una specie di nuvola nera, si nasconde, tra gli ultimi versi del poema “Autunno”- insieme ad un'infinità di foglie caricate da riflessioni le quali provocano prischi carmi cagionati d'una certa bellezza tanto intima quanto assoluta- sifatta perla:

“In fondo la solitudine è un periodo di crescita,
ma l'abbandono ti fa nuovamente neonata,
come le foglie
calpestate dalla prima persona passata,
e colorate da falsi sorrisi, i quali mi rendono Donna. “

Una certa oscurità rende alcune opere dell'autrice vere e proprie proiezioni di un mondo tetro, quasi immerso in ambienti che danno luogo a scenari di terrore, legati alle solite fiabe dell'infanzia.

In “Serata d'autunno”, la Naldi, riesce a combinare perfettamente la sua cupezza e il carattere contemplativo di un poeta, fattori certamente legati alla poesia tradizionale italiana e a quella decadente sviluppata in Francia alla fine del XIX secolo. Lo stile, infatti, oscilla tra queste due tradizioni: in “Risveglio” l'autrice crea un componimento tale da provocare una scissione fondamentalmente Leopardiana: la prima metà di quest'ultimo esprime uno stato di contemplazione della natura, in cui essa si rivela in forma sublime e idillica, provocando, in questo modo, uno stato di grande gioia e benessere. La seconda metà, invece, non fa altro che svelarsi in modo doloroso e pessimista nei confronti della stessa natura, inizialmente rappresentata in forma ideale.

In “Sola”, la giovane poetessa, si collega, con una guisa non scevra di freschezza, ad una sorta di “semplicità Prevertiana”; caso esemplare sarebbe il confronto con il poema “Bussano”, tratto dall'opera “Histories” del 1946.

“Chi è
Nessuno
E' solo il mio cuore che batte
per te
Ma fuori
La manina di bronzo della porta di legno
Non si muove
Non si agita
Non muove nemmeno la punta del dito. “


Il rapporto si genera fondamentalmente attraverso due elementi che caratterizzano i due autori: Una certa esistenza di iterazione e l'uso di frasi corte o di parole singole al posto di versi tradizionali:

“Sola
ancora sola
sola canto... sola”

“E' uguale a me
vuoto
nero
solo
quasi mi fa tenerezza..
mi abbraccio fra le mie acque salate
sanno come prendermi
sanno come amarmi
lasciandomi sola.“

Quasi le stesse caratteristiche si presentano in tutte le poesie successive. In “Stagione”, invece, le caratteristiche si collegano, in modo perfetto, con uno stato pensoso e riflessivo, caratterizzato, essenzialmente, da una forma raccordata allo “Spleen” baudelairiano. Nel componimento già accennato, il mondo esterno è caratterizzato da un paesaggio autunnale livido, ad esempio: il viale è “contornato da un letto rosso sangue”, pieno di “foglie verdi / forse stanche di morire ad ogni stagione.”
La dimensione interiore dell'autrice è rappresentata da una serie di riflessioni legate ai caratteri contemplativi già menzionati in precedenza.

C'è un impeto mistico all'origine della poesia di Jessica Naldi, esperienza che lega la sua poetica a due casi specifici della poesia degli anni 50: Alda Merini e la poetessa Argentina Alejandra Pizarnik. Le loro forme poetiche sono, essenzialmente, rappresentazioni sostanziali d'uno scorrere sanguinolento dell'anima sul foglio. Sia nella Naldi che nella Pizarnik il sole sembra “un animal demaciado amarillo”(Pizarnik), ovvero la surreale immagine d'un “Desnudo soñando una noche solar”, tutto legato alla Naldiana immagine d'un “Giallo come sole alla sera”.

La Naldi mette in comunicazione il proprio flusso di parole ad una certa parte dei poeti della “quarta generazione”. Qui la Merini sembra essere il caso più vicino al “sentimentalismo oscuro” della Naldi, anche se nella seconda, vi sono elementi trattati in minor quantità rispetto che ai componimenti della Merini. Esempi chiari sono: la follia e gli sdolcinati modi attraverso i quali la Merini tratta il “flusso sanguinolento” accennato in precedenza.

Per concludere: Devo dire che non esistono compromessi fissi nella poesia di Jessica Naldi, com'è il caso di una grande maggioranza di giovani “anticonformisti” della nostra generazione. La Naldi riesce a fare, attraverso la sua poetica, quello che, altri individui, non riescono a fare attraverso manifestazioni politiche e rumore apparentemente condizionato. Jessica Naldi si rivolge sia all'essere umano, che ai componenti della sua generazione e, tutto ciò, si sviluppa mediante forme le quali trasformano la poesia di lei in una manifestazione asessuata e atemporale dell'anima, forme più che sufficienti per individuare un poeta.

I componimenti nei quali immane, nella sua completezza, la poetica della Naldi:

Sola

Sola
ancora sola
sola canto... sola
sento parlare il vento ..
mi sussurra dolci frasi,
quelle che non ho mai sentito..
quelle che sogno da sempre..
nuoto
di nuovo, nuoto nei meandri della mente...
nei luoghi dove la gente va per caso
dove la gente passa poco.
Quel paesaggio mi consola,
è uguale a me
vuoto
nero
solo
quasi mi fa tenerezza..
mi abbraccio fra le mie acque salate
sanno come prendermi
sanno come amarmi
lasciandomi sola.

Dolce Luna.

E questa dolce luna
questo dolce silenzio
mi culla nella mia trista eternità.

Questa luce fioca
rumori ovattati
queste parole sussurrate.
Leggiadra l'aria, soffoca piano la mia esistenza
ti sento.. anche se non sei qui
sento che ammiri pure tu la mia stessa luna
sento che ascolti il mio stesso silenzio.

E questa dolce luna
questo dolce silenzio
mi culla nella mia triste eternità.

E piano.. e piano tutto si spegne
rimango al buio, la luce mi disturba..
e piano dolcemente tutto si sfoca
i pensieri dilagano e affondano in un profondo mare nero..
non è morte.. è miglior vita
i lupi mi chiamano... sentono il mio urlo senza sonoro..

E questa dolce luna
questo dolce silenzio
mi culla nella mia trista eternità.

Serata d'autunno.

Sguardi veloci.
Mi sono accorta, mentre moriva il sole
che la vita scende con esso,
col passare degli anni.
Mi sono accorta,
di come si accarezzano le foglie,
come mani bisognose d'affetto.
Ho osservato la volpe scappare dalle grinfie del cacciatore.
In un secondo,
ho visto il colore del prato e del bosco,
mischiarsi per dar buio alla notte.
Mi sono vista vivere dal vento.

Risveglio.

L'aurora riempiva la stanza con quello splendore,
come acqua fresca in un bicchiere di cristallo
impregnata di odor di rose di campo.
Quale soave sensazione ultraterrena
quasi come se i sogni trasudassero da ogni piccolo
oggetto intorno,
e potessi toccare i raggi immacolati del sole
come nuotarci dentro.
Il risveglio di un nuovo inizio e la mia ultima aurora.
Prima della caduta.
Prima della realtà.
Prima della vita vera.

Autunno.

Torna l'autunno
cadono le secche foglie
il sangue si gela
la mente non dorme
sola, candidamente spietata!
volenterosa di nuovo nettare,
per crescere i propri
bisogni.
Non più estate e caldo amor cerco,
ma solo carne e fame.
Non si dice di una donna solo come parla o veste!
ma come pensa e quando tace,
come guarda quando è animale,
perché come l'uomo, l'istinto urla!
Donna in cerca di risposte delle cose comunemente noiose,
mente oscura e piena di ribellione!
Io poche righe descrivo...
anche se,
quello che vorrei vomitare sulla mia vita mi pesa..
scrivo versi sul mondo intorno...
che piano, piano... mi ha persa,
poi presa.
In fondo la solitudine è un periodo di crescita,
ma l'abbandono ti fa nuovamente neonata,
come le foglie
calpestate dalla prima persona passata,
e colorate da falsi sorrisi, i quali mi rendono Donna.

Scritto da: Yerko Andres Sermini e revisionato da: Mr. S

sabato 18 settembre 2010

Henry Miller: Il falso pornografo.


Devo riconoscere che la mia prima intenzione verso l'opera di Henry Miller fu quella di leggere della pornografia. Dentro la mia coscienza di lettore rimane molto chiara l'immagine di Roberto Bolaño concentrato a parlare sulle sue faccende delittuose dentro le biblioteche messicane della sua gioventù. Casualmente egli rubava i libri di Miller e De Sade con gli stessi propositi attraverso i quali io spesi dei soldi nel comprare il “Tropico del cancro”; opportunamente decorato dalla “Andromeda” di Tamara De Lampicka in copertina. A questo punto successe un fenomeno alquanto interessante: leggere le prime righe dell'opera in questione mi riempì il cuore di sensazioni molto angosciose, altroché curiosità sessuale. In queste pagine Miller inizia il romanzo descrivendo la sua condizione esistenziale dentro la miseria di Villa Borghese. Proposizioni quali: «siamo soli e siamo morti», oppure «Non c'è scampo, non cambierà stagione», fanno un effetto tale da richiamare nuvole nere sopra la coscienza e spegnere, in un certo modo, una piccola quantita d'interesse verso il romanzo. 
Intanto , visto che i romanzi hanno una stesura ben determinata, la lettura doveva proseguire, anche perché  l'avidità di riempire il tempo da immagini immorali e quadri erotici era gigantesca. Così arrivai a contemplare ogni passo dato dall'autore verso un universo totalmente originale ed intimo. Forse la mia posizione nella storia e lo sviluppo della tolleranza verso alcune parole “scorrette” hanno provocato che, a differenza di Orwell e una certa quantità di censori, il romanzo non mi scandalizzasse in eccedenza. Questo non vuol dire che il libro sia buono; è la sua particolare atipicità quello che rende l'opera un romanzo attraente. In questo modo, dopo la lettura completa dello scritto, ci si rende conto che la carica di erotismo non è a livelli stratosferici e questo è, di sicuro, un fatto che denuncia il moralismo che soffocò la commercializzazione del romanzo, costringendolo a una ben nota clandestinità. Ecco perchè la vera natura del romanzo, quella in cui c'è una gran esibizione delle povere avventure giornaliere di Miller a Parigi nei tempi della depressione, provoca, sfortunatamente, una certa delusione nei lettori presi già dal pregiudizio: è inevitabile non sentire una certa impotenza nel momento in cui ci si mette a leggere un libro dal quale si risulta ottenere soltanto il vagabondaggio di un aspirante scrittore e non la carnalità così attesa in precedenza. Mi sa che, in questo caso, mirando ad equilibrare e a compensare i desideri, bisogna prendere i diari della Nin o la medesima pornografia in Francese scritta dallo stesso Miller a un dollaro la pagina (archivi ormai persi dopo tanto tempo trascorso). Nondimeno è necessario precisare che la cifra di Miller non è nelle sue offese all'educata società intellettuale Europea, ma, ripeto, si presenta nel suo “anarchismo”. Anzi, l'anarchia è presente sia nei personaggi del romanzo che nell’ innovativo stile dello stesso. Perché, precisamente, quello che esce dalla testa di Miller non si lega a quasi nulla, soltanto ad un comma scritto da Waldo Emerson in cui egli augura, con notevole ottimismo, un prospero avvenire alle biografie:

« In futuro questi romanzi cederanno il passo ai diari, alle autobiografie: libri avvincenti, se soltanto qualcuno sapesse fare una scelta fra ciò che egli chiama le sue esperienze e conoscesse il modo veridico di raccontare la verità”»

Ora bisogna essere realisti: Chi legge oggi questa sorta di romanzi? E' vero che le autobiografie sono oggi un mezzo di successo commerciale, sempre e quando sia l'autobiografia di qualche personaggio storicamente noto. Quindi, di conseguenza, la questione subisce una piccola mutazione: chi si ferma a leggere l'autobiografia di un vagabondo, sudicio, pidocchioso e intellettuale di serie b perso tra quartieri parigini e prostitute di qualità? La risposta è semplice: noi, lettori onnivori e di mentalità alquanto liberale, attingendo, anche se non in modo assoluto, alla predisposizione di trovare un pornografo anziché un’artista. Per questo Miller non fu e non sarà mai lo scrittore del secolo. Ci sono stati scrittori quali, Pound, Eliot e Huxley che hanno lodato la sua scrittura, visto che la suddetta è una chiara dimostrazione di modernismo letterario. Tuttavia, però, questo è poco: dove sono i riconoscimenti? Bella domanda: questi non si presentano, certamente, in premi o lauri accademici, anche se bisogna non dimenticare la coraggiosa e altrettanto umoristica presentazione di Miller al premio Nobel attraverso una breve lettera scritta a pugno dallo scrittore Beat William Borroughs: «Dear Sir, Henry Miller is a uniquely qualified candidate for the Nobel Prize, as a writer whose work — over a period of forty years — possesses not only great intrinsic merit, but has also contributed immeasurably to freedom of expression. Very sincerely, William S. Burroughs (Novelist).”» Così, rimanendo la petizione in nulla, gli unici premi che Miller può ottenere sono i propri lettori: fatto non minore per un romanzo del genere.
In conclusione Henry Miller non è altro che un superstite. Vedere le sue opere così ordinate in fila nelle astanterie di una biblioteca fa pensare ad una certa sopravvivenza (sopravviverà Aldo Busi al trascorso del tempo?), anche se queste  non siano così benfatte quanto quelle di altri autori americani che nel periodo tra le bombe scrissero capolavori riconosciuti sia dalla critica che dal crudele e disordinato trascorso del tempo. Miller, in questo modo, potrebbe perfettamente essere definito un romanziere talentuoso, oppure un bravo ritrattista espressionista. Però, nonostante tutto, la sua eccellenza si realizza nell'enorme dimostrazione di un certo disincanto, di un menefreghismo che non smette mai di essere collettivo, realistico ed attuale.

Yerko Andres Sermini. 

domenica 12 settembre 2010

Prosa o poesia?

Introduzione
Questo saggio, fondamentalmente, è un quesito, un dilemma .
Non sono qui per proporre il quesito anceschiano: che cos’è X.  Parto dal presupposto che la poesia è tutto ciò che l’uomo, o meglio, il critico chiama e cataloga sotto questa parola. Questa presa di posizione, ad alcuni, può sembrare quasi senza senso; sarebbe impossibile cercare di definire la poesia e pensare di riuscire a esaurire in questa millenni di produzione umana, però, si potrà replicare che, considerando la micro poetica contemporanea, si possa arrivare comunque ad una definizione(cioè solo certi periodi della storia della poesia). Per principio non credo nella possibilità di riuscita del proposito, tuttavia, replicherei: se considerassimo solo un certo periodo storico tutto il resto,antecedente o che ne trascende i dettami, diventerebbe automaticamente obsoleto e non sarebbero più opere d’arte(dunque dovrei sostenere, ad esempio, in campo pittorico, che la Gioconda di Leonardo non è un’opera d’arte in quanto dovrei considerare, nella proposizione, solo la pittura contemporanea); gli si negherebbe inoltre la possibilità di Trascendenza[1] che accomuna tutte le opere.
In questa saggio introdurrò il problema della differenziazione della poesia dalla prosa nelle proposte contemporanee .

1.0   L’annichilimento metrico:  Verlaine e Ginsberg
 Sin dall’antichità fino ad oggi, a seconda dei momenti e dalle lingue[2], alcune proposte poetiche sono state accompagnate da una struttura metrica ben definita. Dal decadentismo, o meglio, una parte di esso, si è cominciato a discutere sulla possibilità di soprassedere ad alcune regole che sono(o erano) di vitale importanza per ogni scrittore[3]:

«Prendi l’eloquenza e torcile il collo!
E farai bene, in vena d’energia,
a moderare un poco anche la rima.
Fin dove andrà, se non la tieni d’occhio?

Oh, chi dirà i torti della rima?
Quale bambino sordo o negro pazzo
ci ha plasmato questo gioiello da un soldo,
che sotto la lima suona vuoto e falso?»

Verlaine, però, sembra conservare ancora, o almeno non la condanna, un po’ di metrica. Questa parola, nella poetica di Ginsberg e Withman, sembra assolutamente assente[4] come testimoniano:  Continuità e Barlume Notturno; le opere del primo sono capaci di trasferire il lettore in una dimensione onirica, in un sogno e, in certi passaggi paiono definitivamente automatismi mentali trascritti. L’impaginazione scelta rassomiglia del tutto a quella di un romanzo, difatti, delle volte, il lettore avrà la sensazione di leggere  un racconto di un sogno, di una visione più che una poesia.
2.0   Evoluzione e rottura
Ogni movimento, nella letteratura europea, è sovente stimolo per la sua evoluzione in altre correnti che da questo ne prendono le mosse; altre volte però si ha una reazione nei confronti del suddetto, come neoclassicismo e romanticismo, che porta i poeti di entrambe le fazioni a prendere posizioni del tutto opposte. Nella poesia italiana,futuristi a parte, nonostante il passare degli anni, si è sempre mantenuta una vaga struttura metrica che, lontanamente, si rifà ai dettami degli antichi anche se con qualche modifica. Le produzioni americane, invece, hanno reinventato completamente il modo di fare poesia stabilendo una rottura stilistica con quella nostrana (e vorrei dire anche europea).
3.0   Poesia o prosa?
 Dopo aver a lungo esaminato produzioni poetiche americane, soprattutto di Withman e Ginsberg, ne ho rilevato che, in molti frangenti, rispetto alla poesia moderna, più ligia alle regole metriche, paiono vere e proprie prose o prose poetiche. Il dilemma che si pone è inevitabile: oggi, dovendo considerare la molteplicità delle proposte internazionali contemporanee e storiche, che cosa diversifica la poesia dalla prosa? Anche se pedante la risposta parrebbe scontata: La metrica[5]. Così dicendo, però, bisogna ammettere che la poesia americana, essendone praticamente priva( lo dimostrano le impaginazioni sempre diverse nelle varie edizioni), debba essere esclusa o messa in secondo piano; se invece  la si privilegia, tuttavia, si rischia di cadere in equivoci che fonderebbero prosa e poesia: non si saprebbe più dire se una determinata composizione è un romanzo oppure è una lunga poesia. Cosa stabilisce che certi passi, ad esempio, della ricerca del tempo  perduto di Proust ,sono prosa invece che poesia? Soltanto una mera catalogazione critica? Purtroppo, ancora una volta, più si ragiona e si cerca di uscire dall'inghippo più pare insolvibile perchè, se si decide di prendere posizione, una scelta esclude l’altra.
Signor S.


[1]Si veda il paragrafo relativo al museo immaginario dal libro L’opera dell’arte: immanenza e trascendenza di Gerard Genette(edito da Clueb a cura di Fernando Bollino)
[2] Il sistema metrico varia di lingua in lingua: la poesia latina, ad esempio, è quantitativa mentre quella italiana è accentuativa; le lingue germaniche si fondano sull’accento intensivo e sul verso breve;in Russia veniva utilizzato un sistema giambico e trocaico (fino alla metà dell’ottocento)
[3] Verlaine è stato uno dei primi che si è pubblicamente schierato contro la rima(deve essere moderata). Quest’ultima, però, decideva, assieme al numero di versi, di che tipo componimento si tratta: il sonetto, ad esempio, secondo il metro fondamentale, era composto da due quartine e due terzine di endecasillabi con rima incrociata(ABBA ABBA), alternata(ABAB ABAB) nelle prime e, nelle seconde, alternata(CDC DCD O CDC CDC) o invertite(CDE EDC) o replicate(CDE CDE).
[4] Infatti la conta sillabica è del tutto casuale(nei componimenti di Withman, a volte, si incontrano versi di 35 sillabe) quest’ultima poi non è costante; gli accenti irregolari cadono in posizioni sempre diverse. La rima è praticamente inesistente se non per qualche esempio (fortuito?) e, a volte, il nesso logico viene messo da parte per favorire immagini molto fantasiose.
[5] Anche jackobson(noto strutturalista), in linguistica e poetica, sembrerebbe concludere che la poesia si riconosce, prima di tutto, dalla metrica e dalle varie figure retoriche applicabili.

giovedì 2 settembre 2010

Pablo Neruda / Al di là del sonet.


Ecco qui una decina di parole chiavi: mattone, sgocciolatura, grappolo, susina, pioggerella, creda, trifoglio, brina, innaffiare, tubature, sellaio e gorgheggiare. Queste sono alcune delle espressioni che ho segnato dietro l'edizione “Passigli” dei “Cento sonetti d'amore” scritti dal premio Nobel per la letteratura Pablo Neruda. I termini segnalati sono, essenzialmente, un insieme di orme che invocano certe immagini del mio passato: le pericolose susine che cadevano dall'albero nell'estate, le fastidiose sgocciolature che si presentavano in inverno e bagnavano casa mia quasi nella sua totalità, l'immagine di mio padre impegnato ad innaffiare l'erba del nostro accurato giardino posteriore che è tesoro di ogni famiglia della zona centrale cilena. Ora ,il mio obbiettivo centrale, non è fare esibizione di alcuni termini che hanno marcato la mia scarsa “identità patriottica”, ma quello di ampliare i confini tematici di quello che è, precisamente, l'opera di uno dei poeti più importanti della storia dell'America latina; perché Neruda non è solo un artista che, attraverso il suo pugno, ha frammentato “l'amore” in versi sublimi, ma qualcosa di superiore a quella figura “affermata”: un poeta civile, creatore di coscienza nazionale e, soprattutto, di coscienza latino-americana. Nonostante i dettagli l'amore è, soprattutto, la tematica principale di quest'opera raffinata, talora impulsiva, surreale, vasta di immagini alquanto illogiche ma eccelse e d'una bellezza logicamente sprizzata della costante assoluta della poesia d'amore Nerudiana: il sentimento. Lo stesso Neruda riconobbe questo fatto nel momento in cui proferì il suo discorso per il Nobel a Stoccolma, il 21 ottobre 1971: « […] penso che la poesia sia un'azione passeggera o solenne in cui entrano in pari misura la solitudine e la solidarietà, il sentimento e l'azione, l'intimità dell'individuo, l'intimità dell'uomo e la segreta rivelazione della natura». Anzi, la poesia Nerudiana, persino nella sua manifestazione propagandista, prende l'intensità della andatura di un fiume che trascina tutte queste componenti. In questo caso, l'incontro con quella che sarebbe la sua compagna di vita, Matilde Urrutia, provoca la nascita di versi che, seguendo un cristallino e rumoroso fluido, arrivano sia al percorso attraverso un “infinito immaginario” che ad indicare nuove strade al sonetto; egli lo costruisce, infatti, con endecasillabi privi di rima.
Nel libro risalta un'altra particolarità, la divisione dei sonetti in sezioni corrispondenti alle fasi del giorno: mattino, mezzogiorno, sera e notte. Questa è una divisione simbolica che illustra una certa traiettoria dell'animo. L'amore si presenta attraverso uno stato di grazia e preoccupazioni intime. I versi del primo gruppo, ad esempio, esprimono una condizione felice. Matilde diviene la quintessenza di ciò che Neruda considera “il valore positivo assoluto” e così, allo stesso tempo, si accende quel fluido di immagini che tanto caratterizza la poesia Nerudiana:

« Vedrò sul ramo la tua capigliatura,
il tuo segno che matura nel fogliame,
che avvicina le foglie alla mia sete,

la mia bocca empirà la tua sostanza,
il bacio che ascese dalla terra
col tuo sangue di frutto innamorato.»

Nel gruppo di sonetti riuniti nel resto delle sezioni l'animo del poeta accentua un carattere riflessivo e triste. Nicanor Parra, celeberrimo poeta Cileno, riferì su Neruda : « (…) è chiaro che in questi tempi bisogna imparare a ridere quanto gli antipoeti! Ma è anche necessario piangere ancora, come lo fecce Neruda.»Da qui la denominata “Poesia di lacrime”:

«Di pena in pena attraversa le sue isole l'amore
e stabilisce radici che poi irriga il pianto,
e nessuno può, nessuno può evadere i passi
del cuore che corre silenzioso e carnivoro.»

Un dettaglio preciso è anche la sua amicizia con i pittori Diego Rivera e Frida Kahlo i quali hanno influenzato marcatamente il processo creativo di quest'opera: da una parte si realizza la passione per la propria terra dimostrata nelle opere di Rivera, dall'altra una certa espressione legata al dolore metafisico e alle opere della Kahlo. Neruda, dopo tutto, non fu mai un poeta-intellettuale;si servì della propria natura e della profondità dei suoi sentimenti per creare quello che è, senza dubbi, il lavoro di un vero e proprio artigiano dell'immagine. Infatti egli non formula una quantità specifica di riflessioni, ma crea una quantità illimitata di figure. Così la piuma si trasforma in un gran pennello che, con maestosità, dipinge clementi e deliziose pitture esibite soltanto nell'interiore del nostro immaginario collettivo. Questo, sinceramente, è troppo significativo per essere di un artista che “tutti” conoscono, ma che pochi sanno apprezzare nella sua totalità.


Yerko Andres Sermini

mercoledì 1 settembre 2010

Olive Kitteridge: lo specchio di un mondo.

Chi direbbe che una vecchia e infelice professoressa di matematica sarebbe stata la portavoce del dolore che solo gli Americani possono provare? Oppure che la voce di questo essere cosi severo, ma attento e spesso generoso, sarebbe stata la conferma dell’efficienza della letteratura americana? Trovare almeno un po' di dolcezza nella lettere nordamericane contemporanee è un caso quasi impossibile. Soltanto la profonda sensibilità femminile poteva fare la differenza dentro un contesto sempre influenzato dalla sperimentazione e dal minimalismo tragicamente volgare. Olive Kitteridge (Elizabeth Strout - Editore Fazi, collona Le strade) non è altro che una linea divisoria che separa l’amarezza totale dall’amarezza accompagnata da una tenerezza femminile unica.
La Strout struttura un “romanzo in racconti”che sono legati alla rappresentativa figura di Olive Kitteridge, professoressa in pensione e uno dei tanti abitanti di Crosby, cittadina del Maine: un luogo futile che tuttavia, grazie alla sottile lama dello sguardo dell’autrice, diviene lo specchio di un mondo più ampio e simbolico. E’ in questo contesto che il mondo intero si scopre agli occhi del lettore: un farmacista cattolica, una pianista alcolizzata dalla propria solitudine e un podologo depresso pronto a sposarsi sono alcuni dei personaggi che formano le esperienze di questo fresco romanzo.
La maggior parte delle storie attivano una specie di meraviglia spontanea e dolorosa. La vasta gamma di esperienze lascia, nel lettore, un sapore anziché una mera impressione trasformando la Lettura del romanzo in una azione culinaria più che letteraria. Qui ogni storia provoca nel recettore quella che sarebbe, probabilmente, la formula del successo totale: l’identificazione, la luce negli occhi dei personaggi, i loro volti ordinari e la loro complessità emotiva spinge ,ogni lettore, a trasformarsi in colui che occupa la sua stessa posizione.
Olive kitteridge è, ancora una volta, una grande dimostrazione del fatto che solo gli americani possono fare i propri autoritratti. Il romanzo rammenta la grande eredità del secolo: un ambiente molto simile a quello descrito da Reymond Carver nei suoi racconti e a quello rappresentato da Edwuard Hopper nei suoi dipinti.
E’ così che la tradizione letteraria e la femminilità di Strout rendono il romanzo una deliziosa analisi dell’umano. Resta solo da segnalare il merito che Straut ha avuto nel ricevere il premio pulizer per il romanzo. Non è difficile riconoscere che la scrittrice merita di essere al fianco di nomi quali: Hernest Hemingway, William Faulkner, Richard Ford, Philip Roth e Cormac McCarthy. Eppure niente, neanche premi ed elogi potranno compararsi alla sensazione che Olive kitteridge ha provocato. In fine, il maggior encomio, non è altro che provare brividi e dolore ogni volta che una frase del romanzo viene assaggiata.

Yerko Andres Sermini

martedì 31 agosto 2010

I celebrate myself / W.W. e il suo albero gigante.


L'attenzione si sposta (purtroppo?) verso la dittatura dello humour. La giornata di lavoro è stata assai intensa; a causa di essa ho realizzato la precarietà del mio entusiasmo. La fame di sapienza ,ormai, non c'è più da molto tempo; nemmeno l’amore per la conoscenza. La malinconia domina, quasi totalmente, il mio “presente” e questo mi spinge a rileggere, con piacere, ma anche con una certa pigrizia, i primi libri che ho assaporato in lingua italiana. Così, nel confine tra accidia e sonno, ho aperto il mio baule magico e il primo oggetto che appare, innanzi a i miei occhi, è «Foglie d'erba» di Whitman che è alquanto maltrattato come, tutti i miei libri: ha un paio di macchie bianche sul logo “Bur poesie” e l'edizione data esattamente giugno 1988. Alla prima occhiata mi viene in mente la prima frase che proferii ad alta voce quando finii di leggere quest'opera: «Questo non è un libro, è un maledetto albero!»; invero l’edizione rassomiglia ad un vegetale in tutto e per tutto: la copertina verde-acqua e il «Kindred Spirits» di Durand, situato in mezzo a questa, trasforma l'aspetto del libro in un vero “foliage“.
Già aperto il libro mi ritrovo con un significativo ritratto( olio su tela) di Whitman dipinto da Herbert Harlakenden Gilchrist. L'affresco mostra il poeta come un uomo tranquillo, abbastanza saggio e corretto, la sua barba è sproporzionatamente bianca. L'immagine sembrerebbe rappresentare Withman come un eroe, quasi una specie di “figura religiosa”. Sì, probabilmente, può anche essere un’ immagine veritiera: la sua poesia lo rende una strana specie di profeta non riconosciuto dalla chiesa; siamo noi lettori, appassionati di poesia, a dare forza a questa immagine( che sia, in realtà, una chimera?).
Parlare su Whitman significa, inevitabilmente, parlare sull'America. Walt non è altro che uno degli artèfici principali di quella “forma” che ha caratterizzato la letteratura Americana: una forma basata sulla “semplicità” fascinosa e sulla tanto agognata “libertà” che si ritrova ancora negli annali della politica statunitense. Il poeta in questione fu, senza dubbio, un cantore legittimo della “democrazia” e, soprattutto, dell'uomo stesso. Le sue creazioni vanno aldilà dei soliti discorsi contenuti da idee logiche e si manifestano in “canti assoluti”. L'albero,tuttavia, non finisce qui! Anzi, sembra raggiungere il cielo: prende la medesima forma di un sogno magnanimo e la sua presentazione è un’ immensa metafora che rimanda al racconto popolare inglese «Jack e la pianta di fagioli». Così noi lettori ci arrampichiamo su per la pianta e troviamo il vecchio poeta seduto, impegnato a cantare i suoi ideali. Dall'alto, il gigante Whitman, si esibisce come poeta che utilizza il proprio io per cantare al mondo. Riesce perfettamente a trasformare la propria carne e il proprio alito in erba e terra di tutti. Ricordo molto bene il commento fatto da Skarmeta nel momento in cui segnalò che «Whitman è l'esempio vivace di quei poeti che hanno l'universalità immersa persino nei peli della barba». Infatti, il poeta, trasforma il proprio egocentrismo in materiale intrinseco di questa universalità:

«I celebrate myself, and sing myself,
And what i assume you shall assume,
For every atom belonging to me as good belongs to you.»

In una lettura, datata 18 ottobre 1882, dopo quasi trent'anni dalla prima pubblicazione di «Foglie d'erba», Gerald M. Hopkins, poeta e gesuita, confessava a Robert Bridges la sua profonda e inquieta ammirazione per Walt Whitman. Non ne aveva letto molto, ma quanto aveva visto gli bastava per renderlo consapevole di una fascinazione tale da trasformare la lettura in una «voluttà colpevole»; cos'è che rende la poesia di Whitman una composizione così affascinante ? Sarà la sua aria liberatrice? Oppure il suo modo discorsivo ed esageratamente colloquiale? Hopkins era affascinato da ciò che, in alcuni casi, può, in primo luogo, interessare un poeta: il ritmo. Quei versi, lunghi, irregolari, hanno costituito uno stile decisamente influente per la sublime posterità di poeti. Anzi, lo stesso Ezra Pound omaggiò Withman con il poema «Patto»:

«Stringo un patto con te, Walt Whitman:
Ti ho detestato ormai per troppo tempo.
Vengo a te come un figlio cresciuto
Che ha avuto un padre dalla testa dura;
Ora sono abbastanza grande per fare amicizia.
Fosti tu ad abbattere il nuovo legno,
Ora è tempo d'intagliarlo.
Abbiamo un solo fusto e una sola radice:
Ristabiliamo commercio tra noi.»

Allen Ginsberg, erede diretto sia di Whitman che delle avanguardie storiche, lo immaginava al suo fianco nelle infinite notti trascorse a Barkley, negli anni cinquanta:

«Come ti penso stasera, Walt Whitman, perché camminavo per piccole strade sotto gli alberi col mal di testa guardando consapevole la luna piena.»

D'altra parte, Il problema di Whitman, chiaramente, sono le idee: la disavventura del poeta non fu quella di non esprimere delle idee, ma quella di liberarsi di una certa “realtà” inevitabile. Nel momento in cui lessi, per la prima volta, il celeberrimo «Fogliame» Whitmaniano non ero mai stato di fronte a un autore così idealista e diplomatico; circostanza che a volte diventa assai odiosa, quasi quanto il discorso amoroso. E’ qui che il lettore deve farsi strada tra le macerie instabili di questa “America” divisa fra idealismo (necessario?) e reale complessione. Insomma, il suo ottimismo ,in tempi in cui era più facile essere pessimista ”diede ( difatti si attraversava, a causa la guerra civile, uno dei periodi più oscuri della storia degli Stati Uniti) al poeta un'importanza quasi totalmente legata “all’aspetto” della tradizione letteraria Americana. Le sue impronte morali e spirituali non sono altro che parole calpestate dalla storia stessa e dagli archivi. Leggere Walt Whitman attualmente è un atto che invoca, inevitabilmente, una serie di fonti di illuminazione visto che la sua, così amata, “democrazia” è stata uccisa e stuprata dai suoi stessi compatrioti. Così l'anima di Whitman è, per eccellenza, un luogo invisibile, ignaro di idee, senza nome; qualcosa cui ci si può rivolgere solo grazie ad incantesimi. E’ questo che gli si ringrazia più attentamente al poeta: un certo innalzamento della bellezza come ideale costante e come componente spontaneo di quei raggi di sole che, ogni tanto, ci sfiorano il capo.

Yerko Andres Sermini.