domenica 27 novembre 2011

Brevissima introduzione a “Riflessi antichi”, di Luca Cenacchi.

La presente introduzione ha come oggetto centrale un'opera che rappresenta, in un determinato contesto, una rottura rilevante. Probabilmente “Riflessi antichi” - opera qui presentata - avrà un significato assai più importante di quello che certe coscienze hanno imposto con totale e gratuita fretta. La verità è che non risulta facile riassumere l'essenza di questo carme in una piccola introduzione, per ciò è necessario precisare che il mio scritto non è altro che una sinossi, e non lo scritto che vorrei veramente esporre. In primo posto, l'opera, pur essendo di larga matrice Foscoliana, tratta temi del tutto attuali (a differenza di ciò che alcuni ritengono con grande vivacità); E anche se tali tematiche sembrano già essere state trattate tempo addietro, esse non sono mai state sondate in questa maniera. Sembra curioso che un poeta odierno utilizzi tematiche di questa natura attrezzandosi di una poetica che, per alcuni, è morta nell'ambito della produzione letteraria contemporanea . Ecco perché Luca Cenacchi dimostra un segno di forza nei confronti dei suoi coevi: egli sperimenta, attraverso l'uso dell'espressione aulica, una complessità di temi che qualsiasi altro avrebbe trattato mediante l'espressione standard e le forme ormai consuete degli ultimi cinquant'anni di tradizione. Ma per capire meglio questa trattazione è necessario toccare dei passaggi concreti del carme . L'opera, prima di tutto, è composta da tre specifici componimenti lirici: “La speranza”, “Alla morte” e “Imèneo”. Nel primo componimento possiamo trovare già un cenno a tematiche care ai giovani neo – tradizionalisti: l'influenza globalizzante Americana sull'Italia (“quando su i tormenti e le patrie / croci grava a' vati straniero / e a gl'inni, oscuro 'l Tacchino, / e tiranno ammaestra i Nostri / catenando gli Esuli a' giochi.”); il neoclassicismo come arma principale di resistenza contro tale minaccia e la speranza sorgente dalla testimonianza di un mondo armonioso che cresce in mezzo al paesaggio della contemporaneità (si veda il vincolo al duomo di Forlì e al cimitero monumentale stesso). Altre tematiche, come il razzismo, vengono toccate prima che cominci ciò che, nelle parole dello stesso autore, risulta “il vero e proprio carme”. Qui il poeta sente, in una notte quieta e armoniosa, gli ululati di ciò che sarebbe, secondo lui, piaga del vivere contemporaneo; e non solo: il passaggio qui presentato è caratterizzato da immagini rapide che spesso si rivelano in rapporti di ossimori (“Ma lunge ne l’ignoto s’odon/ sgangherarsi i lai e gl’immondi/ attoniti insultar gl’Elisi/ invidiando la quiete e’l Lume,/ e quindi rovinare dissolti/ o levarsi ancora delirando/ d’iperborëi fuochi fra deserti/ algenti di sidèree sabbie,/ compiacendosi negli abissi/ in cui si rispecchian i lor volti/ scomposti ne la psìchica insania,/ per pöi eclissarsi ancora.”).
La spiegazione di questo passo richiede un maggiore approfondimento, il che ci rimanderà al prossimo trattamento di questo carme.
Nel secondo componimento, “Alla morte”, il poeta riecheggia l'influenza di un altro autore importante, Giuseppe Parini, il quale viene usato in modo da accomodare le proprie critiche a quelle attuali, rivolte ai poeti-ma non solo- della sua generazione. Qui, anche la figura dell'Atlante risulta centrale (“Sì le ombre più volte violate /arretran e disvelan i Sepolcri, /e già lesto, de’ gl’avi custode, / eletto a sublimare l’empireo, / spetrato si innalza Atlante, /e in serpentinata sembianza /si plasma devota la posa, /scolpita e affrescata nel voto /che la pèrmea sacrando lo sforzo, /quand’alzando la destra sostiene /leggiadre le vertìgini astrali /e l’altra de l’uman delirare /gravissimo il passo contende, /perchè troppe beltà a la Storia /gïà gl’insanguinan i vaghi vestigi”).Ora si può essere sviati dalla figura di Atlante e dalla retorica con cui è descritto senza vedere la rivisitazione del mito stesso: uno dei modi con cui il poeta cerca di rendere attuali certe figure(serpentinata sembianza, qui, sta a significare la figura serpentinata); Eppure, proprio per spiegare il significato di questa centrale figura mitologica, userei le stesse parole dell'autore, che indica le proprie intenzioni di significato:
«Atlante cosa fa? con una mano regge il cielo che è leggero, perché non ha peccati e la terra che è imbevuta dal sangue sparso da l'uomo ; con l'altra mano combatte l'oblio del delirare umano(quel delirare che Foscolo chiamò: un natio delirar di battaglia, ma non pare che lo considerasse così distruttivo o dilagante ma come qualcosa che serpe quasi occulto), le ricusa; questo delirare che è gravissimo, cioè pesantissimo; ma perché contende il passo verso gli elisi? Perché questo delirare insanguinò alle vesti della Storia attraverso la vita di troppe bellezze»

Infine, “L'imèneo” presenta un'idea fondamentale nell'ambito della poesia dell'autore: l'atto di divinizzazione della donna, ora non più rapportato direttamente all'immagine di Dio, ma definito come atto idoneo a identificare la“divinità stessa che con le sue doti di generazione può eternare un uomo, rubandolo al suo destino mortale”. In questo caso, l'immagine ideale della persona amata non è più rifugiato dietro la figura di Venere. Anzi, le caratteristiche di Venere sono sotto "nascoste" dietro l'immagine dell'amata. Così il poeta crea una sorta di divinizzazione della donna: si noti che non si può parlare di donna angelica poiché l figura femminile diventa, in Cenacchi, principio e fine dell'esperienza spirituale; se fosse una visione dantesca, come dice Eco, l'idea che si avrebbe sarebbe la seguente: "[...] in Dante la donna angelicata[...] è via di salvazione, mezzo di elevazione a Dio". Ora, è chiaro che per Cenacchi la donna(cosa che oggi pare meno scontata che in altri tempi) non è più nessun tipo di strumento o mezzo per giungere a uno scopo, eppure anche in questa visione, ancora una volta, si può scorgere una critica alla contemporaneità, elemento pressoché costante della produzione dell'autore.

Yerko Andres Sermini

giovedì 8 settembre 2011

Vittorio Cerruti

I
Oltre a fare un giudizio estetico sui componimenti che qui saranno criticati e analizzati, vorrei avvertire un fenomeno assai singolare che potrebbe riguardare una potenziale quantità di giovani poeti di nazionalità Italiana. Un'aria di patriottismo si sente nei versi che alcuni di questi giovani stanno generando con dedizione, coscienza estetica e nozione storico-letteraria. Il dato di fatto è che il carattere puro della tradizione letteraria Italiana si sta cominciando a valorizzare assai più di quanto un critico, o un lettore accorto, non avrebbe immaginato; e nel momento in cui parlo di una “tradizione letteraria Italiana pura”, mi riferisco a quella parte delle antologie che precede agli ispiratori diretti dell'ermetismo, ovvero l'opera di Eugenio Montale e Giuseppe Ungaretti.E' importante precisare che questo fenomeno ha la sua più diretta manifestazione in casi circoscritti, ma non assolutamente privi di valore. In questa circostanza i casi più noti finora afferrati sono quelli di Luca Cenacchi e Vittorio Cerruti.Non impressiona però il fatto che l'estetica di questi due artisti risulti propensa ad alcuni dissensi, pur trovando elementi comuni su molti altri aspetti. Luca Cenacchi, da una parte, esaspera gli elementi formali di una letteratura gloriosa a discapito della sincronia della lingua Italiana affermatasi dopo i processi di industrializzazione. Dall'altra parte, gli aspetti tematici che il poeta usa nella propria opera risultano essere in totale contrapposizione agli aspetti tematici inerenti alla poesia scritta negli ultimi 50 anni. Ed è su questo punto che converge il cammino dei due giovani. Il patriottismo che li lega  si genera come manifestazione di una curiosa contestazione. Essa può essere osservata attraverso la coscienza di un critico letterario - e da qui trovare una realtà visibile nell'esistenza di questi due poeti – oppure potrebbe essere analizzata in base a presupposti più vasti, legati direttamente allo studio della società e dell'economia. Ed è da questo contesto che finalmente il lettore potrà trarre un'idea specifica di quale sorta di creatura sia il cittadino italiano in tempi che determinano variati scontenti e mutamenti.

Curiosamente il patriottismo letterario in questione sembra essere molto più diverso di quanto non sia stato in precedenza. Se andiamo a indagare fenomeni di questo genere nella letteratura Italiana, possiamo realizzare l'esistenza di singoli casi in cui si presenta una letteratura di carattere patriottico, oppure si può rendere conto dell'esistenza di una generazione il cui stile si fonda su atteggiamenti propri di un periodo storico importante della nazione. Nel momento in cui si segnala una generazione di scrittori il cui patriottismo fu la principale fonte di creatività, si fa esplicito riferimento ai cosiddetti “poeti della rivolta”: una tradizione letteraria di protesta civile che ebbe la meglio in tempi pre e post unitari. E' proprio nei confronti di questa generazione che la poesia del Cenacchi e del Cerruti presenta una determinata contraddizione. In questo caso, i componimenti dei poeti in questione si legano, più che ad una letteratura di carattere risorgimentale, a una letteratura di carattere nazionalista.  La poesia di  Cenacchi può sembrare molto meno piena di caratteri nazionalisti  rispetto alla poesia di Cerruti. Difatti, nella poesia del primo vi è una presenza minore di elementi di carattere esplicitamente nazionalisti, convertendo la sua poesia in un'affermazione personale sulla superiorità che la letteratura Italiana esercita sulle altre letterature. D'altronde, per definire i caratteri della poesia di Cerruti, va fatto, invece, un riferimento diretto alle differenze stabilite tra la sua poetica e quelle che possono essere considerate poetiche simili o vicine. Per svolgere una differenziazione di questo tipo è necessario stabilire una ulteriore distinzione tra la nozione di patriottismo e quella di nazionalismo.


II
L'esigenza di illustrare una distinzione tra la diade patriottismo e nazionalismo ha la sua radice nella costante confusione che questi due concetti creano al momento di utilizzare una specifica terminologia. Infatti, al momento in cui la poesia di Cerruti viene presentata ad altri, essa è definita quanto “patriottica”, e non quanto “nazionalista”, che sarebbe il termine più adatto di questi due. Cerruti, ad esempio, afferma in prima persona il fatto che la sua formazione letteraria sia pienamente legata a due nomi: Gabriele D'annunzio e Arnaldo Fusinato. Proprio nel momento in cui l'autore affianca questi due nomi, egli ci ha dato la possibilità di fare la distinzione necessaria a questo specifico studio.Teoricamente la nozione del principio di nazionalità ha come base un'idea legata esclusivamente ad una consapevolezza dell'identità culturale e storica del proprio popolo. Da un punto di vista storico, questa consapevolezza ebbe la sua egemonia nella prima metà del XIX secolo, ispirando molte nazioni a compiere un'unità territoriale ed economica. Questa accezzione, a differenza della rispettiva nozione di nazionalismo, correla l'idea di nazione a idee precise come la libertà e la democrazia, fondando la principale finalità dell'azione patriottica - e cioè la formazione di una nazione - sulla volontà dei cittadini e sull'autonoma decisione dei popoli.Qui è necessario precisare come le principali distinzioni presenti tra le nozioni in studio sono assai note per la chiusura o l'apertura che un singolo popolo può avere nei confronti di altri popoli. Difatti, i principali poeti della tradizione patriottica dell'età unitaria condividono due ideali in comune: ideali di carattere repubblicano e democratico nel periodo preunitario e durante lo stesso periodo di unificazione, e ideali di carattere socialista nel periodo post unitario. Poeti rinomati di quest'epoca storica furono: Giosuè Carducci (proclamato “il maggior poeta civile dell'Italia unita), Eliodoro Lombardi, Giulio Uberti, Filippo Turati e molti altri. Esempio clamoroso, invece, della fede internazionalista di questi poeti furono i versi di Giulio Uberti quando, avvertendo la stanchezza delle lotte nazionali, proprio nella sua ode “Guido il volontario”, aprì una dichiarazione di pace e di fratellanza fra i popoli, dilatando così le aspirazioni ideali legate al concetto di umanità :


Perso o Giudeo – Turco o Bramino
Una è la meta, uno è il cammino!
Un sole istesso ci scalda – a tutti
Una è la terra che dà i suoi frutti.

A malincuore delle aspirazioni di carattere repubblicano e democratico, l'Italia venne formata in base a ordinamenti non consoni agli ideali originari dell'insurrezione Mazziniana. Ecco come la costituzione del 1861 dello stato nazionale unitario – dichiarato dinasticamente il “Regno d'Italia” - coincide significativamente con la crisi di quegli ideali guerrieri di cui abbiamo fatto riferimento. Così, nelle menti più sveglie delle vecchie generazioni e nelle menti delle generazioni avvenire questi valori sono stati ancora sostituiti da valori di pace, di giustizia e di solidarietà internazionale.
Dall'altra parte, il nazionalismo afferma la coscienza di un'altra idea di nazione, influenzando notevolmente le relazioni internazionali. Essa asserisce la consapevolezza della superiorità culturale e razziale del proprio popolo sugli altri ritenuti inferiori. Effettivamente, è così come le nazioni instaurano tra loro relazioni di chiara rivalità, destinando i propri rapporti a seguire indicazioni legate a leggi diverse a quelle dettate dal diritto internazionale.E'qui dove la poesia di Cerruti trova una sua piena identità. Pare che l'associazione tra la sua poesia e quella d'annunziana sia un elemento perfetto per spiegare certi procedimenti sia di carattere ideologico che estetico. Precisamente il nazionalismo in Italia agì innanzitutto su tre scenari in cui la partecipazione del vate ebbe un ruolo determinato: l'attuazione di politiche colonialiste, la propensione verso politiche interventiste nei confronti della prima guerra mondiale e la nascita del Fascismo.Nella fattispecie, il D'annunzio ebbe grande importanza in due di questi tre scenari: nell'interventismo e nella nascita del Fascismo. In questo caso, il nazionalismo e le sue derivanti pratiche ebbero una trasposizione letteraria che sembra essere molto più influente nell'opera di Cerruti: in prima istanza, lo stile letterario d'annunziano presenta sia procedimenti estetici sia atteggiamenti morali che ci spingono a legare l'opera del “vate” alla poesia del giovane.  “Nell'Alcyone”, ad esempio, il d'Annunzio presenta certe idee che indicano fortemente la sua propensione verso forme ideologiche reazionarie, totalmente contrapposte a quelle dei patrioti del risorgimento. Così, precisamente, nel componimento “La tregua”, in cui si rivolge esasperatamente a un “despota” (o maestro), la cui volontà deve essere sempre seguita. Qui ci si rivolge non solo alla forza umana d'un mandatario, ma anche alla forza energica d'una nazione che, attraverso la guerra, dovrebbe soggiogare in base alla propria superiorità:

Despota, andammo e combattemmo, sempre
fedeli al tuo comandamento. Vedi
che l'armi e i polsi eran di buone tempre


Eppure risulta evidente che dallo stesso Alcyone si manifesti, attraverso modi del tutto ironici, un sostanziale rifiuto verso la pace: elemento inutile all'affermazione dell'egemonia della proprianazione:
Pace, pace! La bella Simonetta
adorna del fugace emerocàllide
vagola senza scorta per le pallide
ripe cantando nova ballatetta.
Inoltre, nel componimento “Laus Vitae”, della raccolta “Maia”, il nazionalismo del d'Annunzio può essere ritrovato attraverso l'atto creativo che coinvolge gli “italici segni” - ovvero la scrittura in lingua Italiana - limitando, però, l'energia della superiorità nazionale al già noto “superomismo” e alla coscienza demiurgica:

/... /

della stirpe fertile in opre
e acerrima in armi, per entro
alle fortune degli evi
fermata in sillabe eterne;
parole corrotte da labbra
pestilenti d'ulceri tetre,
ammollite della balbuzie
senile, o italici segni,
rivendicarvi io seppi
nella vostra vergine gloria!

 I riferimenti continuano nelle opere successive. La retorica Cerrutiana dei seguenti versi serve ad emancipare le prossime idee:
Un fuoco ha bruciato l'odiosa bicefala, nulla rimane
Di quel vile augello; le nostre campane
Intonino gli inni d'Italia: Vittoria, Vittoria, Vittoria!
Il bel Tricolore si spiega sul nostro destino stamane,
Non più serpe d'acqua governa le rane.
La guerra che è giusta catene crudeli discioglie, la Gloria

Ci porta, siam liberi noi! Siam lupo di Fedro, non cane!
I corpi più forti, le menti più sane;
A passo di marcia, trionfanti, puniamo la perfida Storia:
Sei rea, sei malvagia, tu laida, sui cuori spingesti le frane.
Flagello di terre vicine e lontane,
Gli umili han vinto, dov'è tua truppa, non più fa baldoria?,
Questi versi, presenti nel componimento “Centocinquant' anni e novantatré”, sono utili a identificare una certa parte della poetica come una trasposizione attuale di ciò che, in alcune opere d'Annunziane, fu l'espressione del nazionalismo più esasperato del “vate” nei tempi del colonialismo e del interventismo.  Qui alcune strofe del “Canto augurale per la nazione eletta”, contenuto in “Elettra”:


Sopra quella discese precìpite l’aquila ardente,
la segnò con la palma.

Una speranza eroica vibrò nella mole possente.
Gli uomini dell’acciaio sentirono subitamente
levarsi nei cuori una fiamma.
Italia! Italia!

Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi
di strage alla tua guerra
e per le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi mirti,
o Sempre rinascente, o fiore di tutte le stirpi,
aroma di tutta la terra
Italia! Italia,
sacra alla nuova Aurora
con l’aratro e la prora!
D'altro canto, sia la personalità del Cerruti che quella del Cenacchi subiscono un male che grava fortemente sui versi composti: l'ansia di gloria. Siffatta ansia si rivela attraverso figure, temi e riferimenti legati direttamente a un'inquietudine Flubertiana: il creatore è assillato dall'idea dell'inferiorità dei tempi moderni rispetto a quelli passati e, proprio come alcune correnti romantiche, i giovani poeti  scoprono l'opportunità di “aprirsi ad una immaginazione
storica” collocando le loro ansie di gloria, grandezza e magnificenza nella qualità di epoche remote. Questa idea si affermò anche all'inizio del XX secolo, con la nascita del modernismo anglosassone; ma, in questo caso, la letteratura di questi due giovani non afferma soltanto le impressioni Flubertiane, ma anche una superiorità della lettere italiane nei confronti delle altre letterature. Ed è qui che le teorie nazionaliste non solo si applicano alla vita pubblica, ma anche alle concezioni storico – letterarie dei singoli. Difatti, l'armonia e il sublime ,che tanto siattribuiscono alle forme passate della letteratura italiana, vngono fedelmente ricercata nei propri componimenti. Da una parte il Cenacchi porta queste teorie verso forme di estrema accuratezza estetica;  dall'altra la poesia del Cerruti si manifesta molto più fedele a teorie ideologiche specifiche, usandole come centro essenziale del processo creativo che lo riguarda.


III

Prima di intraprendere un'analisi estetica dei componimenti del poeta in questione, dovrei presentare un'altra teoria sulla poesia dei giovani autori. La loro poesia può essere, effettivamente , una poesia “patriottica”. Tutto ciò però visto attraverso un'ottica che privilegia una lettura sul rapporto della poesia italiana con i mutamenti socio economici subiti negli ultimi sessant'anni.
E' un dato di fatto l'idea che la realtà contemporanea dimostri fenomeni assai curiosi. Essi gravano pesantemente sulla concezione problematica che cittadini e artisti hanno sulla nozione di nazionalità e sulla posizione dell'individuo nel mondo. Questi fenomeni possono essere presentati come risultato diretto di un processo di globalizzazione, dove l'individuo si immerge in un mondo in cui predomina una sorta di “Materialismo pratico”. Tanto è vero che la globalizzazione ha permesso all'uomo di dominare la naturalezza come mai lo aveva fatto prima. Questo dominio permette di soddisfare o meno una parte del globo attraverso metodi del tutto razionali e scientifici. Improvvisamente negli ultimi sessant'anni si è sviluppata una gran parte della tecnologia, permettendo all'individuo di comunicarsi in tempo reale e conoscere il mondo così come gli illuministi intendevano fare. Ed è qui che in realtà salta fuori il concetto pratico di “cosmopolitismo”, ovvero l'intenzione di essere “cittadini del mondo”.
Complessivamente, tale concetto nasce e si sviluppa a partire del giusnaturalismo, per così prendere forma successivamente attraverso ideali di natura illuminista, con una conseguente positivizzazione del diritto universale in particolari ordinamenti statuali applicati dopo la rivoluzione francese. Il concetto prende, finalmente, una totale universalizzazione attraverso la dichiarazione dei diritti dell'uomo, proclamati nel 1948 dalle Nazioni Unite. Così, i cosiddetti “cittadini del mondo” si rapporterebbero alle istituzioni internazionali in merito.
Ma il fenomeno globale che agisce direttamente sulle problematiche che interessano questo articolo sono più che altro di carattere economico. Quel che esattamente risentono i poeti contemporanei è la terza fase di un lungo periodo di rivoluzioni di carattere industriale. Questa fase cominciò nel 1945 e dura fino ai giorni nostri, influenzando ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Qui la scienza diventa completamente un lavoro collettivo: il lavoro del singolo ha meno importanza e le innovazioni nascono da un lavoro di équipe. Nascono elementi come l'energia atomica, l'astronautica, i robot e, sopratutto, quelli elementi che, nei nostri tempi, influiscono gravemente sulle relazioni umane: le telecomunicazioni, il computer, l'internet, i cellulari, ecc. Dall'altra parte si presenta l'affermazione di monopoli e oligopoli a livello mondiale, provocando la globalizzazione delle multinazionali. E' qui dove , precisamente, l'azione “straniera” applica la sua influenza sulla nazione. L'operare delle multinazionali condiziona enormemente l'identità del cittadino nazionale cambiando completamente il suo modo di vivere e di osservare la realtà. La letteratura, dall'altro canto, riceve sempre più influenze esterne, cambiando così la sua forma originaria. Essa si trasforma, così, in una zona in cui un particolare connubio di tradizioni si integrano alle forme classiche della tradizione
etteraria Italiana. Parallelamente nasce tra i poeti una tradizione che evidenzia una maggior attenzione verso procedimenti estetici di carattere prosastico. Basta vedere la trasformazione subita dalla poesia di E. Montale o i volumi delle antologie dei “Poeti Italiani del secondo novecento”, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi.

A questo punto risulta valida la visione dei poeti che vorrebbero rivendicare una certa grandezza della letteratura Italiana nei confronti di una “contaminazione” procurata dalle influenze straniere. Un'evidenza diretta di queste posizioni è reperibile in un'ode ispirata all'Adelchi, scritta dal poeta a cui questo studio è dedicato:


Straniere genti, questo sappiate bene:
Scorre un sangue d' amante nelle mie vene;
Devoto a una terra che voi dileggiate,
Per essa a fluire da me è 'si disposto,
Che voi, se mai toccaste, ardereste tosto
Poiché quanto sia fuoco voi ignorate.
La nascita del “nuovo patriottismo letterario”, sebbene presenta una certa quota di contraddizioni nei confronti dei poeti che cantarono all'unità e alla repubblica nel XIX secolo, instaura quello che dovrebbe essere necessario in un contesto culturale e letterario vivace, e cioè l'altra alternativa letteraria che, senza dubbio, deve esistere.


IV

E' necessario precisare che il nazionalismo dell'autore in questione - oppure patriottismo letterario, come si è teorizzato - non solo si esprime attraverso implicazioni di carattere ideologico. Difatti, esiste qualche componimento del Cerruti che trascende la propria coscienza nazionale dell'autore per così arrivare alla manifestazione di una bellezza non percepibile nei componimenti strettamente ideologici; e per componimenti strettamente ideologici intendo, “L'ode ispirata all'Adelchi”, “ Famagosta 4 agosto 1571”, “Centocinquant' anni e novantatré” e “ Il sestante”. E' in base a questa distinzione che si definisce la qualità estetica dei componimenti in questione. E credo che per questo bisogna determinare alcune precisazioni in quanto all'utilizzo della poesia nella promozione di determinati ideali o specifiche ideologiche. Questo servirebbe non solo alla lettura della poesia del Cerruti, ma anche al giudizio di intere correnti letterarie e procedimenti estetici imposti da specifici regimi totalitari.L'impegno a cui tanto fa ricorso il Cerruti non è adatto al linguaggio della poesia. E questo si può anche notare nell'opera del D'annunzio. La posizione consiste in certificare che la trasposizione poetica di certe ideologie – senza dare importanza alla loro natura – non è tanto efficace quando la trasposizione prosastica delle stesse. Qui l'autore potrebbe argomentare le proprie scelte in base a particolari elezioni estetiche legate all'esistenza di casi simili nella letteratura Italiana. E potrebbe aver ragione. Cerruti non è l'unico che ha eseguito lo stesso procedimento. Esiste una grande cultura letteraria che ha intrapreso la stessa strada di Vittorio Cerruti. Ma l'amore per la patria e la coscienza di superiorità della propria nazione non sono elementi che qualificano inevitabilmente in modo positivo il lavoro di un artista. Le intenzioni, in questo caso, non sono il materiale essenziale per svolgere un giudizio estetico. Sono solo i componimenti ciò che dà al lettore l'impressione di essere di fronte a materiale di qualità, e non gli ideali del soggetto che ha creato tale materiale. Precisamente da questo presupposto nasce l'idea che l'arte “impegnata” del Cerruti sia meno qualitativa e abbia meno valore di quanto non lo abbia quella poesia “disimpegnata” e molto più propensa alla contemplazione dello stesso autore. Qui è necessario prestare un po' di attenzione alle mie parole. Il fatto che certa poesia del Cerruti sia meno qualitativa di quanto pare non significa che non sia valida o necessaria allo scenario culturale dei giovani poeti Italiani. Quest'ultima sezione dell'articolo ha obiettivi diversi di quelli precedenti, ed è giusto rispettarli. La differenza che nasce tra le caratteristiche dei componimenti scritti dall'autore a cui questo studio è dedicato potrebbe essere parallelo alla differenza tra componimenti Dannunziani quali il “Canto augurale per la nazione eletta” e “la pioggia nel pineto” o “Innanzi l'alba”. Tale differenza, come si è menzionato in precedenza, fonda la propria esistenza in base al ruolo dell'impegno e del disimpegno nella poesia. Certi studiosi della letteratura, com'è il caso del filosofo Francese Jean–Paul Sartre, fanno una grande distinzione tra l'atto di infondere energia sul linguaggio - come sostengono alcuni poeti - e l'atto di riempire il linguaggio di significati. Il poeta infonde una grande quantità di energia sul linguaggio e limita la presenza di significato nelle parole. Il predominio del significato, scrive Sartre, si dovrebbe presentare più intensamente nella prosa che nella poesia:

«Non si dipingono i significati, non si mettono in musica; chi oserebbe, stando così le cose, esigere dal pittore o dal musicista che si impegnino? Lo scrittore, invece, ha a che fare con i significati. Ma va fatta un'altra distinzione: il regno dei segni è la prosa; la poesia sta insieme con la pittura, la scultura, la musica.»
In questo caso si potrebbe affiancare la poesia impegnata del Cerruti alla poesia fortemente impegnata delle avanguardie, oppure a tutta l'arte popolare del realismo socialista. Ed è qui che si crea un'altra distinzione tra la poesia del Cerruti e quella del Cenacchi. In effetti, Luca Cenacchi non è un poeta impegnato, pur essendo membro illustre del circolo patriottico di giovanissimi poeti Italiani. Il patriottismo del Cenacchi è del tutto circoscritto agli aspetti letterari della tradizione poetica Italiana. La poesia del Cenacchi, a differenza di quella del Cerruti, non dà spazio ad aspetti ideologici. Il suo neoclassicismo è lontano dal romanticismo e dal decadentismo di Vittorio Cerruti. E questo concerne aspetti espressivi che, nella poesia impegnata del Cerruti, non si presentano. L'atto creativo di Luca Cenacchi fa sì che si instauri, tra la parola e la cosa significata, un “doppio rapporto reciproco di rassomiglianza magica e di significato” e cioè un equilibrio tra poesia e il significato stesso. Ecco come si presenta il gran problema della poesia del Cerruti: i suoi ideali hanno, in queste circostanze, più importanza della poesia stessa.

Ma limitare il Cerruti alla sola espressione d'una determinata ideologica sarebbe commettere un grave errore analitico. Esistono componimenti quali, “ Tu prova a strappare il germoglio”, “ Ode alla Cattedrale di Nantes” e “ L' Eterna Partenza” in cui si presenta tale l'equilibrio generato dal rapporto tra poesia e significato. Risulta notevole, ad esempio, il compito contemplativo e la grande forza espressiva del componimento “Tu trova a strappare il germoglio”, composto da due strofe di dodici versi ognuno. Ecco qui la prima strofe di dodici versi:

Tu prova a strappare il germoglio
Dell' umile basilico, via
Dalla sua aspra terra ligure,
Prova a impiantarlo in altro loco:
Nelle dolci colline ai piedi
Dell' elevata Alpe maestosa,
In lombarde piane del Pado,
Nei felici campi di Marca,
All' ombra degli umbri rilievi,
Per le vaste Murge àpule
Oppur presso l'Etna rovente,
Nulla otterai che non sia menta.
D'altronde i procedimenti espressivi del genere non si limitano soltanto a questo componimento. Sembra quasi che il poeta, nel componimento “Ode alla cattedrale di Nantes”, scopra, prima di tutto, una caratteristica speciale che precede i significati e permette di creare una specifica armonia tra immagine e musicalità:
Nantes, dell'organo il canto,
Si levano bianchi pilastri:
Mirano il loco santo
Le luci mie in tali pii fasti.

Nantes, dei popoli il pianto,
Volti duri come i pilastri.
Di tutti il cuore infranto
Non legano più gordian nastri!

E il fatto di rendere semplice e, allo stesso tempo, tanto complesso quanto il sentimento stesso, sensi legati al dubbio del destino della propria esistenza e dell'insostenibilità del presente, si evidenzia nell'ultima quartina del componimento “L'eterna partenza”:

E' l'Eterna Partenza, umana pena;
Un decadente Sol su noi s' infiamma:
Vero si torna non un palmo appena,
Chi in retro move, sprofonda nel dramma.

V
Per finalizzare l'articolo concernente la poesia di Vittorio Cerruti è necessario precisare elementi determinanti. L'autore del presente articolo, pur non condividendo certe ideologie e concezioni della nazionalità, ha tentato di svolgere uno studio obiettivo delle componenti citate. I giudizi personali hanno toccato solo e inevitabilmente l'analisi estetico del processo creativo in questione. D'altronde, continuo a ritenere importante l'esistenza di certe poetiche come alternativa a tutto ciò che domina nello scenario letterario Italiano; senza, però, dichiarare l'intenzione di generare un nuovo predominio di specifiche poetiche e concreti strumenti espressivi. Il mio compito non è altro che garantire, creare e diffondere una situazione più variata e propensa alla dialettica ricca di esiti per la vita culturale 

Yerko Andres Sermini.

mercoledì 27 luglio 2011

La poesia matura di Mario Famularo

I

Ho sempre creduto che la letteratura di un poeta contemporaneo sia molto più propensa a paradossi di quanto non lo è stato per i poeti del secolo scorso. Ecco come leggendo le cosiddette “poesie mature” di Mario Famularo si è colpiti soprattutto dal connubio di atteggiamenti etici ed estetici che, in linea di principio, allontanano fortemente il modernismo dall'avanguardia e altri correnti. Famularo potrebbe essere considerato un poeta tradizionalista, data la sua affezione verso l'utilizzo formale di strutture metriche tradizionali. Eppure non è corretto segnalare che Mario Famularo non sia un poeta moderno a cagione del solo fatto che scrive sonetti, oppure perché esprime il proprio pensiero attraverso tante quartine o simboli mitologici.
Assumo che Famularo sia un poeta non riconducibile a un movimento, ma a una pluralità di movimenti. L'idea è molto chiara, persino accettabile. Il problema sorge quando tale pluralità di movimenti risulta essere in costante contraddizione, determinando che la poesia dell'autore in questione sia, a prescindere della qualità innata di essa stessa, una poesia che al suo interiore veda crescere altrettante contraddizioni. Ma qui non possiamo ritenere la contraddizione un elemento negativo. Che un poeta presenti delle contraddizioni nella composizione della propria opera non è lo stesso a che il ministro dell'interiore si contraddica svolgendo il suo ruolo nel consiglio dei ministri. Tutto si sostiene in modo legittimo. E, dato che la contraddizione del processo creativo è stato un elemento giustificabile durante il decorso dell'industrializzazione, tale giustificazione è anche applicabile in contesti socio economici attuali. E' così come si conferma la teoria che tanti critici hanno segnalato in merito a qualsiasi poetica generata dopo i periodi storici segnalati: le arti della modernità sono lacerate dai paradossi che emergono dalle origini storiche. Ed è per questo che, alla fine, il carattere plurale delle ispirazioni della poesia di Famularo risulta un elemento ragionevole.

II

L'autore del presente studio limita la scrittura di questo articolo all'esame diretto di componimenti quali: “La forza”, “La giustizia”, “Il nettare del piacere”, “Lo scudo dell'amore”, “La luna e Psiche” e “L'ombra di Roma”. Lo studio fonda la sua tesi su idee che si dimostrano intramontabili e utili allo svolgimento dell'analisi della presente opera.
Dopo trasformazioni sociali note alla coscienza collettiva, la posizione dell'artista nella società e la sua concezione dell'arte e della vita hanno subito diversi cambiamenti. Questi cambiamenti generano posizioni estetiche in contrasto con determinate tradizioni artistiche e letterarie, oppure generano un'estetica in parziale armonia con le stesse. La produzione estetica che caratterizza questo lungo periodo storico ha come elemento generativo l'uso determinante della ragione critica. Così Octavio Paz, nel suo saggio “Los hijos del limo”, segnala:

« La ragion critica, il nostro principio guida funziona come critica di sé. Domina nel senso che si apre e si impone come l'oggetto dell'analisi, del dubbio e della negazione»

In questo caso la ragione critica prende le distanze dall'oggetto di analisi e, svalutando l'autorità dell'elemento analizzato, esalta la supremazia della coscienza analitica. Ma tale affermazione diviene equivoca agli occhi del lettore nel momento in cui si individua l'importantissimo ruolo che la ragion critica svolse sull'immaginazione estetica durante l'illuminismo . Oggi però l'obbiettivo del poeta non è quello di abbattere un sistema predominante . La democrazia non rappresenta per intellettuali ed artisti ciò che le monarchie assolute rappresentarono per gli illuministi. Per ciò la ragion critica (espressione diretta dell'alienazione) non fa altro che determinare ciò che Charles Russell interpreta come una sorta di assoluta autonomia artistica:

«Dall'estraneazione e dalla frammentazione della prospettiva d'insieme emerge il ricorso all'autenticità personale ed estetica; da un'estetica di prese di distanza e dalla distruttività critica scaturisce l'ispirazione ad un punto di vista univoco, integrato»

E' sulla base dell'autonomia della scelta estetica che nasce la frantumazione della visione dell'autore in questione. Qui la pluralità delle voci della sua poesia diventa un fenomeno sempre più giustificabile, rendendo la sola presenza della storia della letteratura mondiale e l'esistenza incoercibile della tradizione, un elemento necessario e importante all'innovazione e al processo creativo dei poeti contemporanei.
E' così come Il punto principale da esaminare nella poesia del presente autore non è soltanto quello legato agli aspetti formali che la critica ha individuato nel corso dei secoli, ma anche quello legato ai toni e alle riflessioni che il poeta inserisce nei propri componimenti. Questo è l'unico modo di capire le poesie “mature” di Mario Famularo.
Quanto ai singoli componimenti, procederò in modo articolato, data la natura che essi esibiscono al lettore.

III

Nel componimento “La forza”, Famularo presenta immagini legate a concezioni morali personali. Nel presente poema, Famularo tocca problematiche di grande attualità, creando immagini che legano lil componimento prima segnalato a una poetica di natura ermetica, propria dei poeti modernisti. L'obiettivo principale di questo componimento è ciò che per i modernisti fu l'intenzione di trasporre nell'arte la condizione “alienata” del individuo. E in questo caso il poeta aveva due possibilità concrete: affermare la supremazia della coscienza creativa in merito alla condizione alienata dell'individuo, e dunque limitare l'azione del poeta al solo atto creativo, oppure superare tale alienazione e tale ermetismo implicito in molta poesia moderna e intraprendere una strada che lega l'atto creativo a concrete estensioni di carattere politico. Ecco come, in un contesto in cui il sociale ha accresciuto il proprio dominio sulla coscienza individuale, Famularo limita la propria visione a un'azione priva di ogni applicazione pratica nella la società moderna. Ed è proprio in questo complesso che i componimenti dell'autore subiscono profonde contraddizioni, soprattutto di carattere estetico. Qui, l'uso del simbolo come espressione diretta delle proprio inquietudini e delle proprie concezioni etiche diviene l'elemento essenziale di una posizione poetica che, in altri componimenti, non si verificherà affatto. Tutto questo ermetismo risulta evidente nel poema “La forza”. Difatti, qui Famularo utilizza un ermetismo che, in certi passaggi, diviene espressione di una oscurità famigliare alla letteratura Europea:

Criniera del leone desidera il rispetto,
è l’occhio di natura feroce e generoso.
Osserva le formiche, modellano la terra,
in gruppo trovan crude la preda ormai indifesa.

Fortezze e poi castelli, dai templi alle piramidi
l’umani crescon fieri l’autorità del mondo.
Che infuri la tempesta flagellando il tifone,
che squarci terra il moto e l’apparenza crolli.

Qui il poeta dà al leone un significato correlato al potere e alla forza, così come per il Dante, nel primo canto della Commedia, è simbolo della superbia o, secondo altri, della violenza e, politicamente, della casa di Francia:

L'ora del tempo e della dolce stagione:
Ma non sì, che paura non mi desse
La vista che mi apparve, d'un leone.
Questi parea che contra me venesse
Con la test'alta e con rabbiosa fame,
Sì che parea che l'aere ne temesse.

Anche se il sintagma dei versi contenuti nelle quartine citate danno l'impressione di essere innanzi ad un componimento di carattere classicheggiante nel rispetto di una estetica di carattere moderno, l'oscurità di esse risulta quasi interamente legata ad una poetica moderna, connessa a tematiche specifiche di una certa universalità. Tale universalità germoglia da considerazioni personali correlate ad una certa visione sulla Storia. Questo è verificabile nell'ultima quartina:

Di questo magma austero impazziscono gli eventi,
la danza non finisce nel buio della sera.
Potrà passare il tempo e deboli schiantarci
ma il piccolo leone già ostenta la criniera.

Infatti, nel momento in cui il poeta riferisce a “questo magma austero” in cui “impazziscono gli eventi”, non fa altro che presentare l'intera storia dell'umanità attraverso un'evidente oscurità ermetica. A livello concettuale Famularo riconduce, probabilmente, le proprie concezioni allo scrittore inglese E. M. Forster, quando afferma che la storia sociale è «amorale» è offre semplicemente la testimonianza di un disordine. Anche “la danza” raffigura un'altra visione specifica sulla Storia sociale. Il poeta definisce essa come un movimento attivo, articolato ed elegante, che subisce, però, conflitti generatori di problematiche determinate, oppure di condizioni di grande squilibrio (« Vi sembran confliggenti / le forze di cui parlo? / Che accettino i viventi / la furia e l’eleganza.»).

Nel poema “La giustizia”, invece, il poeta utilizza toni che si allontanano da quelli presenti nel componimento appena studiato. Qui Famularo respinge l'ermetismo del poema precedente e assume atteggiamenti lontani dal rapporto con il modernismo. Anzi, in questo componimento, la poesia di Famularo si trasforma e salta dai caratteri riconducibili all'ermetismo estetico a poetiche legate all'avanguardia storica:

Osserva bene, individualista,
e tu uomo abietto, non ti voltare:
vedi Giustizia cruda e imparziale
che sa punirvi in modo esemplare ?
Ieri corrotta fino al midollo
tossiva scorie, chiudeva gli occhi:
era più forte contro miseria
e chinava il capo ai grandi serpenti.

Dal momento in cui Famularo parla direttamente all'uomo individuando le sue magagne e presentandogli il contesto in cui vive, egli pretende riformarlo. Qui, a differenza di molti poeti d'avanguardia, Famularo opera attraverso toni attenuati, senza innovare in modo provocatorio. Questo però non significa che il poeta si scolleghi interamente da atteggiamenti ricollegati ad una poetica di tipo modernista. In questo caso l'autore mantiene l'assoluta posizione di antagonismo sociale che, dal momento in cui rimane passiva, differenzia i poeti modernisti da quelli d'avanguardia. E questo indica ancora una volta l'enorme quantità di paradossi presenti nella poesia moderna e, in particolare, in quella di Famularo. Qui il fatto di dirigere le sue quartine agli individui dichiara un'intensione specifica di cambiare la concezione che il lettore ha sulle specifiche tematiche presentate dall'autore. Ecco come Famularo funge da seminatore di coscienza nel momento in cui segnala,

Guardala adesso, regge la lama
senza abbassarla al cliente di turno:
ma voi provaste in ogni maniera
a crear prove, a renderla nera.

Così Famularo passa ad essere da semplice osservatore a un portatore di valori positivi per la trasformazione della società. E in questo verrebbe paragonato, da Matei Călinescu, a un trasmettitore di idee, non indotte, però, come preciserebbe il critico Rumeno in occasione di un determinato legame politico. E' necessario però precisare che Famularo non giunge al compimento delle idee proposte da Andrè Breton a proposito della definizione d'una poetica d'avanguardia. In questo caso il poeta Francese impone come obiettivo principale dell'atto creativo la “trasformazione il mondo” - come ha detto Marx – e il “cambiamento la vita” - come scrisse Rimbaud – provando a generare, in conclusione, un tutt'uno di queste due parole d'ordine.

Inoltre, il dissenso estetico e morale presente nei due componimenti appena trattati si manifesta con altrettanta grandezza tra i componimenti successivi. Mentre che nei precedenti poemi Famularo esterna espressioni legate alla propria visione delle cose, trattando tutto in base all'azione di procedimenti analitici che raggiungono perfino la sfera sociale degli individui, nel componimento “Il nettare del piacere” l'autore prova a immerge il lettore in una dimensione profondamente intima:

M’inebriano nel tatto e nel pensiero,
ch’allontano leggero,
gli istinti che dai sensi mi compiace:
le belle forme che in avidi sorsi
prendo e vedo scomporsi,
annegano i miei lumi in nuova pace.

L'importanza che i sensi giocano sulla struttura discorsiva del componimento fanno rammentare alcuni dei più illustri componimenti del XIX secolo: per primis il Foscolo e la sua sera quando scrive “E mentre io guardo la pace, dorme / Quello spirito guerrier che'entro mi fugge”; e poi John Keats e il suo omaggio alla qui ricorrente figura della pace: “Oh Peace! And dost thou with thy presence bless / the dwellings of the war-sorrounded isle; / Sloothing with placid brow our late distress, (...)”. Ma il romanticismo che nasce dalla funzione che i sensi operano sull'individuo appare evidente soltanto nella sestina sopra citata. Qui si conferma l'idea che le contraddizioni letterarie presenti nella scrittura di Mario Famularo non si presentino soltanto tra i componimenti, ma anche dentro i componimenti stessi. La differenza manifestata tra la prima e la seconda sestina del componimento in questione dimostra come nell'essenza dello spirito creativo dell'autore ci fosse un conflitto tra la descrizione sostanziale di un processo sensoriale e il giudizio morale dei sensi provati dal poeta. Questo ci fa concludere nell'idea che tra le due sestine ci siano tracce sia di Romanticismo che di un tenue Decadentismo. Difatti Sembra che Famularo descrivesse, nella seconda sestina, quella “piccola veglia d'ebbrezza santa” che Rimbaud inserisce nelle sue “Illuminazioni”. Eppure si potrebbe interpretare il passaggio “La carne brama e freme sensuale / istinto primordiale, / che vestiamo d’amore e di ragione” (sempre contenuto nella seconda sestina) e il successivo “ci lasciamo annientare, / per poi dimenticare la questione”, come quel “veleno” che “resterà in tutte le nostre vene”, di cui Rimbaud, ancora una volta, fa riferimento nella “Mattinata d'ebbrezza”.

E dato che la sessualità, presentata in maniera intensa nella seconda sestina, viene mostrata come un “istinto primordiale” che “releghiamo in oblivione”, possiamo allegare le intenzioni discorsive dell'autore alla concezione che Jacques Lacan sostiene sulla sessualità:

Il reale, per l'essere parlante, si perde da qualche parte. Dove? Ed è qui dove Freud fecce maggior attenzione: esso si smarrisce nel rapporto sessuale. Risulta incredibile il fatto che nessuno abbia trattato questa idea prima di Freud. Il fatto che l'essere umano si smarrisca attraverso l'atto sessuale risulta evidente, incontestabile, ed è stato così da sempre e continua ad essere così. Se Freud ha centrato il suo studio sulla sessualità è in basse all'idea che l'uomo, nella sessualità, comincia a balbettare. E tutto ciò perché l'uomo si rende conto, in questo caso, che esiste qualcosa nella sua esistenza che si ripete costantemente, realizzando, finalmente, l'idea che quella sia la sua essenza.”

Invece nelle ultime quartine il poeta afferma:

Sappiamo forse che è un illusione,
ma non volendo certo rinunciare
ci lasciamo annientare,
per poi dimenticare la questione.

Così i piaceri che sappiam cercare
ipocriti smentiamo con passione,
credendoci persone
che posson di virtù poi giudicare.

L'intensione di Famularo in questa parte del componimento potrebbe essere spiegata attraverso l'interpretazione del presente carme come una sorta di sentimento colpevole verso i risultati immediati del desiderio sessuale. Eppure rappresentare la società intera come un elemento non capace di poter ragionare d'avanti alla “bramosa carne” presentata nella seconda sestina.

Nel sonetto “Lo scudo dell'amore”, l'autore ci presenta, attraverso una pressoché efficace costruzione metrica, lo stesso schema dimostrato nella poesia anteriore. In questo specifico componimento la concezione dell'amore sostenuta dal poeta si divide tra le riflessioni distribuite nelle quartine e quelle proposte nelle terzine. Nella prima quartina Famularo tratta l'amore attraverso una prospettiva idealistica, persino ingenua, legata ad una poetica di stampo romantico:

L’amore è un’egida che ci sostiene,
spesso ci illude e ci fa essere sani.
Quando dal nulla inebriati trattiene
soffoca il gelo e carezza le mani.

Nei passaggi successivi il poeta tratta gli stessi valori mediante prospettive molto più vicine ad una concezione decadente dell'amore e della vita in sé.

Quando mi sveglio dall’incubo dolce
ecco contemplo la sua indifferenza:
meglio un liquore che l’anima molce

o la potenza del muro di noia,
dove mi scontro imbevuto di scienza
quando non vedo l’astuzia del boia ?

Il massimo livello di estraneazione si presenta però nel componimento “La Luna e psiche”. Qui l'autore prende le vesti della luna e, usufruendo il concetto di “sensibilità” (significato astrologico del satellite naturale), crea un'atmosfera che le rime indirizzano verso i sentieri della dolcezza e dell'incanto puro della parola:

L’incanto sai del buio
è dolce e velenoso:
dal verno crudo a Luglio
m’affligge doloroso.

Il desiderio represso di essere parte attiva dell'umanità disinteressata copre aspirazioni che sia il poeta che la luna si vedono impossibilitati a compiere:

Vorrei precipitare
tra le vostre giornate,
poter sperimentare
fatiche spensierate.

Eppure Famularo, senza creare un capolavoro e neppure scrivere versi che passeranno alla storia, consegna, in questo componimento, la gioia che solo la semplicità può trasformare in piacere infinito, consegnandolo direttamente al cuore di chi legge e non comprende, ma scopre:

Lo rosicchiavi mite,
bagnata dal mio manto,
nelle notti assopite
godevi del mio canto.
L'ultima evidenza della diversità tra i prodotti creativi del poeta in questione si verifica nell'ultimo componimento preso in considerazione: “L'ombra di Roma”. Qui il poeta dimostra un'enorme nostalgia verso il magno passato dell'impero Romano, tale e come fecero alcuni poeti come Pound e Gabriele D'annunzio. In questa specifica occasione, Famularo si associa prevalentemente ad una certa frazione della poesia dannunziana, sia da un punto di vista estetico che ideologico. “L'ombra di Roma” rammenta fortemente ciò che è contenuto in componimenti quali, “Canti della morte e della gloria”, oppure “L'arca Romana”, in cui D'annunzio fa riferimento esplicito a un mondo ormai impietrito nelle statue e perduto nella mera memoria. Qui però la corrispondenza è vasta. Il lamento di Famularo in circa i temi segnalati sembra correlarsi molto bene alla poesia del Vate. L'autore utilizza toni che si allontanano dallo stile “pomposo” del D'annunzio, ma i contenuti sono sempre in attinenza. Proprio nel momento in cui il poeta presenta una prospettiva storica della penisola Italica mediante ben sette quartine, l'ottava e nona quartina divengono il centro della questione:

E oggi cosa siamo ?
Corrotto stato e menti
senza un’identità,
diviso da dementi:

immiseriti e chini
al più forte vicino,
pronti a cambiare lingua
per un bicchier di vino.

La negazione del presente, a guardar bene, diviene generatrice di due atteggiamenti determinati: l'inclinamento al passato, oppure la situazione opposta, ovvero il protendere verso il futuro. Qui la posizione di Famularo è chiarissima: egli non presenta atteggiamenti ideologici né estetici che lo leghino all'avanguardia. Il suo sguardo è rivolto al passato e al recupero di elementi determinati della storia dell'umanità. Il suo comportamento non è di carattere progressista, dato che assume posizioni del tutto “astoriche”, nel rispetto dell'avanguardia. Ma il pessimismo non manca (“Quest’ombra ormai c’avvince / e dobbiamo osservare / la lingua che decade, / la patria macerare.”). Eppure il D'annunzio, nell'arca Romana, invoca immagini pessimistiche derivanti dalla sua malinconia (“Tutto è immobilità di pietra, vita /che fu, memoria grave, ombra infinita.”). Oppure nel momento in cui Famularo declama, “e dobbiamo osservare”, invoca quel D'annunzio lamentoso che afferma:

Quivi masticherò la foglia amara
del mio lauro, seduto su quell’arca.

Quivi disfoglierò la rosa vana
dell’amor mio, seduto su quell’arca.

E qui, non potendo avere la realtà di quel mondo prisco, i poeti si appagano col simulacro, desiderando l'inesistenza di quella realtà contemporanea, sempre respinta da impulsi decadenti.

IV

A modo di conclusione penso sia importante sottolineare il valore paradigmatico della poesia di Mario Famularo. E non perché essa sia una poesia di valore assoluto, oppure perché i suoi caratteri essenziali dimostrino la presenza di un progresso nella letteratura contemporanea. Essa ha un valore significativo dal momento in cui dimostra che la rigidità dei processi creativi di un poeta non sia l'unica alternativa nel mondo delle liriche. Famularo rappresenta ciò che l'individuo contemporaneo vive a cagione del sistema che lo avvolge, e cioè il caos e la confusione. E questo può non essere stato espresso attraverso metodi estetici coerenti con l'estetica legata all'innovazione d'avanguardia, ma l'espressione di tale caos riesce a manifestarsi in modo capillare ed essere altrettanto efficace quanto le poetiche riferite ai processi storici segnalati. Quello che sappiamo in verità è che Famularo, pur non essendo un poeta di grandi dimensioni, riesce a rendere giustificabile metodi particolari che non dovrebbero essere necessariamente espressi attraverso i capolavori. Egli conferma l'idea che i capolavori non rispecchino totalmente la realtà dell'individuo, anche se lo stesso Famularo fa la propria Arte studiando prevalentemente il proprio ombelico. 

Yerko Andres Sermini.

domenica 6 febbraio 2011

Turris Eburnea, di Luca Cenacchi.

I

Quando i primi versi di Luca Cenacchi apparvero per essere letti e giudicati in ristretti circoli di amicizia, la nostra prima impressione fu quella di esser dinnanzi ad una sorta di rottura, ad un vera e propria manifestazione di rabbia ed anticonformismo, anche se queste componenti non si manifestino affatto nella costituzione discorsiva del lavoro in questione. L'accoglienza di tali componimenti, scritti sia in prosa che in versi, è stata, fin dall'inizio, causa di dialettica e, in linea di massima, motivo di sconcerto ed inquietudine per ogni partecipante del progresso critico e sostanziale dell'opera. Siffatti elementi potrebbero creare perfettamente una risonanza “rivoluzionaria” in rapporto alle attuali usanze stilistiche della poesia italiana; con l'espressione “risonanza”, mi riferisco solo a un fruscio, a un rumore violento e tempestoso, perché, in particolare, l'autore non ha cambiato la “forma”, e non pretende nemmeno cambiarla. Anzi, i suoi componimenti sono un continuo tributare alla medesima tradizione disparsa nei già conosciuti “istituti di cultura”, reverenza che provoca, a questo modo, un classicismo scevro di ogni traccia di modernismo, ed è questa, insomma, la cagione principale della stupefazione sia del critico, che del lettore acculturato, dato che si crea un'alternativa ai movimenti affermati e alla tradizione prosastica e riflessiva instauratasi nello scenario della poesia degli ultimi decenni.

Turris Eburnea è un lavoro strutturalmente confuso, ma ben pianificato e, di conseguenza, discretamente fabbricato. Così l'opera è strutturata da un prologo scritto in un Italiano “standard” che, però, è modellato attraverso modi pomposi e ricercati che riverberano certe sfumature legate all'estetismo, sopratutto quello D'annunziano, dato che svela, fin dall'inizio, una totale deiezione della propria vanità. Ecco come il Cenacchi dispregiativo comincia, poco per volta, a mostrare indizi della propria poetica esagerata e, a quanto pare, del proprio stile, caratterizzato da eleganti modi di applicazione del discorso.
In quanto concerne la storia, essa presenta, in torno a questo complesso di codici, la figura di un ragazzino che, deluso dalla superficialità che il potere ha dato in serbo ai mezzi di comunicazione, decide di andare alla biblioteca a coltivare il proprio intelletto attraverso illustri tomi che compongano letteratura settecentesca. E' così come, a causa di una lettura già eseguita delle opere in voga, egli decide di ritornare a casa. Improvvisamente, però, trova un tomo mai letto chiamato “Turris Eburnea”: non il tipico trattato in latino, ma un lavoro “vergato in volgare e composto, in parte, da epistole”. Ed è questo pezzo di carta prisca il fattore essenziale di un viaggio nel tempo che, successivamente, il lettore dovrà svolgere attraverso l'incontro di due amici, di cui uno dovrà leggere le lettere scritte dall'altro. Nelle lettere l'autore descrive i sensi di estrema angoscia di fronte alla decadente condizione della popolazione veneta di allora, ritratto perfettamente interpretabile come un pulitissimo specchio della società occidentale odierna. Oltre questo, si ritrattano, con certa maestosità, gli incontri carnali e spirituali tra l'autore delle lettere ed una “divina fanciulla”.


II

La giovinezza e la vanità sono le cause principali del poetare tanto astruso di Luca Cenacchi. Probabilmente siffatte cause rispondono a una serie di fenomeni stabiliti negli ultimi cinquant'anni nella scena letteraria e socio-politica della repubblica democratica Italiana. Troviamo, però, una causa ancora più intrinseca nella poetica tanto particolare dell'autore: un malcontento generale riguardo la realtà vissuta da una generazione ormai abbandonata da i predecessori e dagli avi che, in un certo qual modo, hanno generato quell'ordine d'individualismo che si manifesta sia nella civiltà odierna che nell'intera poetica dell'autore. In questo modo la giovinezza (teniamo presente l'età giovane dell'autore) diventa un fattore superficiale di fronte alla problematica accennata in precedenza. La quotidianità e la realtà socio-politica dell'Italia dei nostri tempi è un fattore che prende ancora più forza riguardo i caratteri esagerati e aristocratici che l'autore applica alla sua opera. Si potrebbe perfettamente affermare che l'autore di “Turris eburnea” utilizza quel registro antico e oramai superato come risultato di un mero omaggio verso gli autori più noti d'una letteratura riconosciuta come “classica”, oppure che utilizza tali guise come una dimostrazione unica del proprio intelletto e del dominio assai coretto del volgare. Ad onta delle idee esposte, valide per un lettore presso dalla sbadataggine, queste non risultano le cause più profonde d'un poetare tanto estraneo allo scenario poetico moderno. Cenacchi potrebbe essere, senza dubbio, un classicista la cui poetica ha come causa principale nient'altro che caratteri legati al decadentismo, e tutto questo raccordato soltanto ad un solo punto di vista: quello di una sorta di protesta, d'una incazzatura verso la pochezza e la mancanza di valori profondi che manifestano i membri di una generazione che, come ho già segnalato, si è smarrita.

Ora, tenendo in conto il fatto che Luca Cenacchi fabbrichi la propria poetica in funzione di un rifiuto sia morale che linguistico, bisogna approfondire tali aspetti giacché ricadono costantemente nello stile dell'autore. Luca Cenacchi, uomo moralista e reazionario, lancia un urlo pressoché solitario al vento ormai inquinato dalla storia. Ed è attraverso questi occhi che il mondo apparve come lo leggiamo in “Turris Eburnea”: un mondo influito dalla falsa immagine di libertà che, senza usare nemmeno un minimo di coerenza, sparge la sua “amoralità” in modo irrefrenabile. E' questa la realtà che il poeta odia: la mancanza di sacralità nei rapporti umani, la presenza di abitudini e costumi privi di ogni sorta di correttezza e lealtà, e, finalmente, quello che Cenacchi sottolinea con delicatezza abissale: l'ipocrisia e la deplorabile condizione di una società ormai scollegata e disinteressata alla propria ricchezza culturale:

“- Gl'ambienti di codesta urbe, amico mio! Loro che sono infettati d'una moltitudine di tarli, ma quello a me più odioso, resta senza indugio alcuno l'ipocrisia; costoro che dovrebbero sorreggere le beltate di codesta cittate, in quanto sostanza di quest'ultima, si smarriscono invece nella selva che cinse l'almo del poeta, ma a differenza sua , codesti figuri non aspirano a lasciarla, ma, purtroppo, si trastullano con i benefici illusori e temporanei di siffatto loco divenendo, da sezzo, loro stessi (..)”
Ed è pure l'autore, all'inizio dell'opera, colui che individua l'origine di questi fenomeni:

“Immoto sulla sedia, con lo sguardo fisso sul pravo mezzo di comunicazione attraverso il quale viene imposto il servaggio da “monarchi” contemporanei (...)”

La televisione diventa così mezzo di comunicazione che, altroché comunicare, anestetizza la popolazione rendendo l'individuo la componente passiva di una discussione debole tra le parti, compresa quella dell'intellighenzia di un paese :

“ «Un'altra trasmissione indegna di essere trasmessa» sentenzierebbe in modo ridondante, con tono querimonioso, l'intellettualoide diciottenne di turno non accorgendosi che codeste commedie, con precisione chirurgica, intenzionalmente o no, imitano la società odierna in tutta la sua licenziosa e laida contraddittorietà.”

Inoltre l'autore non ha voluto soltanto criticare la società e la letteratura odierna, ma ha tentato anche di rievocare tematiche che, nelle ultime frazioni del XX secolo e nel primo decennio del ventunesimo, venivano trascurate o meno “elevate” da una maggioranza di autori. L'amore, in questo caso, rientra in modo sublimato e costituisce, in parte, il lato illuminato della poetica Cenacchiana. Esso apparve, precisamente, nel momento in cui l'autore delle lettere rivolge al suo amico Andres il proprio sentimento di gioia dopo l'incontro con una “fanciulla” pennellata come una “angelica manifestazione”, oppure, esagerando un po' di più, come la “grazia leggiadra”, che, dopo tutto, alimenterà le fiamme eteree, sperimentando la voluttà della carne tra le braccia dell'innamorato. Tutto non si ferma a questo punto, però. La digressione creata dalla fanciulla e la sublimazione del rapporto con essa rappresentano l'un' percento dell'ottimismo dell'autore. La sua letteratura, ricca di proteste verso una società mondana e povera di spirito, coglie un attimo di speranza a causa dell'enorme felicità generata dall'amore, proprio come un Foscolo o un Goethe nei panni d'un autore epistolare:

“La ho veduta, o Andres, la divina fanciulla; quale angelica manifestazione, quale grazia leggiadra, quale guardo maliardo! Non riuscirò, con artefatti umani, come 'l misero verbo, a rendere giustitia a codesta puella, pero questo, o amico, perdonami. Passeggiavo, stamani, per le via della vetusta scuola, quando, entrato nel caffè del Filosofo, davanti a me, appare codesta fanciulla che, con abiti eleganti, potea sfoggiare corpo pieno di cocinnitas: nelle forme armonioso e misurato; non ricadeva in quelle fattezze triviali scevre d'ogni carme. L'almo mio, subito, si smarria nell'iridi sue, anche s'erano brune come l'abisso, serbavano, nel profondo, lucentezza ubertosa, barbiturica.”

L'autore tenta di sfuggire dagli ordinamenti consumistici attraverso una difesa del mondo antico; manifestazione esemplare di questo atteggiamento è il codice accennato in precedenza. L'autore si serve dell'utilizzo di una guisa prisca, generata dalla lettura di autori che hanno dispiegato il loro pensiero attraverso un italiano non ben definito (oppure il volgare, in molti casi). Questo rende i componimenti dell'autore in questione, un estremista. Eppure si potrebbe affermare la sua predisposizione verso una sorte di “superomismo” d'annunziano giacché egli, quanto artista e cittadino, sostiene e perseguita i motivi che stanno alla base delle note condotte del “poeta vate”: la potenza, la gloria, il disprezzo per le plebi, la concezione aristocratica del mondo e il culto della bellezza. Questo, però, costituisce una delle tanti componenti contraddittorie del lavoro in studio, perché egli non è un “poeta vate”, come pensa di essere. L'autore non ha i caratteri di un “tribuno” (caratteristica essenziale per costituirsi quanto “vate”); la sua letteratura non è rivolta a nessuno, bensì solo a sé medesimo (circostanza che lo lega più al dolente D'annunzio de “Il piacere” che al D'annunzio de “Le vergini delle rocce” o quello de “Il fuoco”).


III

“L'uomo che ritorna alle origini lo fa in quanto desidera comportarsi in quel modo che è eternamente ragionevole. Cioè in modo naturale, intuitivo, conforme alla ragione. Egli non desidera fare la cosa giusta nel momento sbagliato, coprire un bue di bardature, come dice Dante. Non vuole pedagogia, ma armonia, la cosa che è «a tono»”. Certo è che, senza traccie di nazionalismo, l'autore ami la propria terra a causa della magnificenza delle arti che essa ha dispiegato nel trascorso della storia. Il poetare di Luca Cenacchi è, considerato nel suo insieme, un corteggiamento nobile alla correttezza di epoche ormai tralasciate dalle ultime generazioni di poeti Italiani e stranieri. Esso, senza contare la produzione in prosa, cerca, costantemente, la perfezione della forma. Ed è così come la forma assume ruoli importantissimi nella produzione poetica del Cenacchi.
Complessivamente l'opera in questione è formata, come ho ben detto, da narrazioni in prosa e, in certe occasioni, dalla presenza di componimenti poetici aggiunti a siffatte narrazioni. Tali componimenti formano, dall'altra parte, il versante poetico e ossessivo dell'autore. Un ode, un sonetto e un carme finale sono i tre componimenti che rivelano il lato più critico e contemplativo del poeta-scrittore. E' in questo caso che si ribella la “verità” dell'autore: la poesia è, senza dubbio, la manifestazione assoluta del pensiero Cenacchiano: antico, moralista, reazionario, classicista e intollerante. E' così come, non ostante la marea di pensieri espressi in prosa, Cenacchi deposita tutta la sua energia nella “forma” dei suoi componimenti, esprime il fervoroso rispetto per le “regole” che detta la metrica italiana. E questa è un'altra manifestazione della presa di distanze rispetto alla letteratura diffusa da Baudelaire e Whitman e che, successivamente, servirebbe a definire la cosiddetta “avanguardia” e il cosiddetto “modernismo”. Tutto questo cagionato, indubitatamente, da tutti i fattori accennati nei paragrafi precedenti e da una accanita e appassionata lettura dei “classici”, fino ad arrivare al romanticismo. Tale risolutezza viene pure specificata nel documento fisico dell'opera. Il primo componimento, “Venetia”, ode dedicata a siffatta città, è costrutto in sestine rimate, tale come creò il Foscolo, aggiunto da strutture metriche individuate dallo stesso autore:

“(...)Il primo verso d'ogni strofa è un settenario con ritmo trocaico dattilo, ovvero, accenti fissi sempre sulla I, III E VI sillaba, seguono endecasillabi con il medesimo incipit aggiungendo l'accento in ottava e decima sede.

In tale componimento, a differenza della prosa, il carattere classicista ed estremista del Cenacchi prende forma nella ricerca della tanto desiderata perfezione. I giudizi critici contro la società, espliciti nella creazione in prosa attraverso raffinate riflessioni, si trasformano radicalmente in una manifestazione mediata e simbolica: la protesta, in questo caso, non si manifesta più tramite la riflessione, se non attraverso “la forma”. Qui il grido più forte si raggiunge attraverso la parola, la rima e la musica: vie essenziali che conducono l'autore verso l'assoluto:

“A venètia, che sùso
L'acque estòllesi rubelle et altèra;
che'l càpo àureo, al pèlago, giuso
Unqua flèssesi, ma ella indonnòssi
De lo impèro con gran' possa et sènno
Del' Enosìgeo 'l quàle niùno cènno

Tòrse còntra la Reìna;
Unqua, l'inclito Dònno, Poseidòne
Ella offèse, né dùsse Arme divina:
né gl'accòliti suò' nòme, pugnòlla
Ma lo pèlago tutto vegheggiòlla. “

Tale perfezione appare anche nei successivi componimenti: un sonetto intitolato “All'amata” (pezzo aggiunto al capitolo in cui il protagonista della storia racconta il suo incontro con la “divina fanciulla”). Anche qui il rispetto verso le regole è fondamentale. L'autore si contrappone all'evoluzione che il sonetto presentò nel XX secolo, con l'avvento di una letteratura più scorretta e allegata al “dinamismo caotico dei mutamenti sociali”. Poi, come ultimo l'autore presenta un componimento intitolato “carme d'una vita”, poesia posta come sublime accompagnatrice al relato epistolare che da fine all'opera, in cui l'autore sublima la precarietà e l'angoscia del uomo vivo difronte all'incertezza della morte.

A questo punto, però, sorge inevitabilmente una questione vitale: Perché Luca Cenacchi, essendo un cittadino della seconda repubblica democratica Italiana, appartenente ad una “generazione condannata”, come si è visto negli ultimi anni, alla precarietà e alla confusione, conseguenze proprie della storia e di un certo modello di educazione, non si attinge attraverso modelli stilistici accordi al suo tempo? Forse la risposta si trova nelle riflessioni formulate in precedenza. Oppure all'ipotesi che il repertorio esibito dall'autore risponda ad una mancanza di nozioni storico-moderne. Cenacchi ignora, per caso, la storia e il contesto che lo avvolge? La risposta è negativa. Cenacchi conosce il suo tempo, e questo, in qualche modo, provoca il suo odio. Perché Cenacchi è un misantropo, ed esso si architetta come un fenomeno generato da cause puramente ambientali. Non siamo di fronte ad atteggiamenti superficiali o pretensiosi, come si vede nelle strade, bensì a manifestazioni che, per quanto riguarda il nostro tempo, risultano anacronistiche. Qualcuno ha riconosciuto tale situazione come “il risveglio di un classicista che contempla il nuovo mondo, totalmente diverso da quello antico”, interpretazione irrazionale, però non meno valida e più simbolica sotto alcuni punti di vista. Quello che fa Cenacchi non è altro che depositare il suo odio e il suo rifiuto nell'atto creativo. In precedenza abbiamo accennato profondamente il modo in cui siffatto odio si sparge sul foglio bianco: spariscono gli elementi “antipoetici” che caratterizzano la poesia del XX secolo e si dà posto alla valorizzazione di temi trascurati dalla tradizione moderna; la mancanza di sensibilità estetica, propria delle avanguardie, sparisce e si mette a fuoco la risolutezza e il rigore della forma come componente essenziale della creazione poetica; sparisce il senso dell'inevitabilità del moderno e appare il senso del “dovere” verso l'antico e la tradizione culturale alta.
Un marxista potrebbe perfettamente accusare Cenacchi di essere un fascista. Anzi, Cenacchi potrebbe essere stato un sostenitore accanito del Fascismo (si veda D'annunzio e il rapporto tra Ezra Pound e il regime di Mussolini). Ma certo è che Cenacchi non vuole e non se ne intende di queste cose. L'autore è un assoluto pessimista, privo di speranze di ogni tipo. Egli non vuole che la sua letteratura sia uno strumento del popolo ne vuole tornare ai tempi dell'antica Roma. Lui vuole solo ed esclusivamente esprimere le sue preoccupazioni e manifestare il dominio di quello che ne l'Italia ne il mondo riescono a valorizzare con misura appropriata: la cultura, elemento ormai dimenticato dalle masse, ma pretesto che, a causa della trascuratezza di certi organi istituzionali, viene utilizzato come elemento di ardite campagne politiche.
Non credo che sia necessario promuovere il coraggio di questo giovane scrittore. Tutto parla da solo. E, non ostante il mio parziale dissenso riguardo certe concezioni fondamentali , penso che l'autore di “Turris Eburnea” sia, sinceramente, un potenziale elemento fondamentale dello scenario culturale nazionale. Elemento fondamentale perché crea discussione, perché mette a repentaglio concezioni affermate per più di un secolo e perché, insomma, forma l'estrema controparte che, senza dubbio, deve esistere. 

Yerko Andres Sermini.